Nuovo allestimento firmato da Marin Blažević del Viaggio a Reims, cantata scenica di Rossini
NOVA GORICA, 19 giugno 2025 – Quando Il viaggio a Reims andò in scena per la prima volta, nel 1984 al Rossini Opera Festival, tutti gridarono al miracolo. Per la strepitosa regia di Ronconi, la presenza di Claudio Abbado sul podio e un cast di fuoriclasse, ideale nel valorizzare un’opera fino allora sfuggita alla ricognizione di studiosi ed esegeti rossiniani. Abbagliati da uno spettacolo così straordinario, in quell’occasione passarono in secondo piano i significati racchiusi nel libretto di Luigi Balocchi, oggi leggibili in una nuova ottica. Infatti, al di là della circostanza celebrativa (all’apparenza un encomio, seppure solcato da irriverenti provocazioni) legata all’incoronazione del controverso re di Francia Carlo X di Borbone, che nel 1825 volle essere consacrato a Reims, si scorgono intuizioni di profetica attualità.

Comunque dalla data della riscoperta, se si eccettua la ripresa che regolarmente viene fatta ogni anno a Pesaro dall’Accademia Rossiniana, le esecuzioni di questo gioiello sono state piuttosto rare – è arduo mettere insieme una compagnia di canto così numerosa, dove a ogni interprete è richiesto di cimentarsi con la più spericolata vocalità – ed è mancata, di conseguenza, una riflessione approfondita sui significati culturali di un’opera che riguarda in modo del tutto insospettabile il nostro presente. Tanto per sfatare l’idea di Rossini musicista arroccato nel suo conservatorismo e lontano dalla Storia…
L’occasione è arrivata dal nuovo spettacolo messo in scena, per il Piccolo Opera Festival, a Nova Gorica: il lato sloveno di Gorizia, città che quest’anno è capitale della cultura. Complice, innanzi tutto, la scelta di uno spazio carico di simboli – e dunque in grado d’innescare più di un cortocircuito mentale – come il grande piazzale, antistante la storica stazione belle-époque, che non a caso in sloveno si chiama Trg Evrope (ossia Piazza Europa). Come se non bastasse, per un capriccio della sorte, la figura di Carlo X è di casa nella zona: il monarca è sepolto nel vicino monastero di Castagnevizza, ora in territorio sloveno, a pochi passi dal confine italiano.
Firmava lo spettacolo il regista croato Marin Blažević, che ha concepito un allestimento rispettoso della drammaturgia originale e, nello stesso tempo, in grado di rendere evidenti i legami con il presente. Come fondale viene sfruttata la facciata della monumentale stazione, trasformata dalle proiezioni di Wolfgang von Zoubek – firma scene, video e luci – che ne enfatizzano la funzione legata al transito dei treni. Così, per una sera, Nova Gorica si trasforma in fondamentale snodo ferroviario d’Europa: si leggono gli orari delle partenze per le principali capitali, ritardi compresi (naturalmente il collegamento con Mosca è cancellato!), mentre sfrecciano modernissimi treni ad alta velocità. Sul palco soltanto scale metalliche mobili, che consentono ai vari personaggi di elevarsi per essere visibili quando cantano. Su entrambi i lati del palcoscenico, invece, sono collocati gli spazi termali (l’azione si svolge ai bagni di Plombières): all’inizio ci transitano gli stessi protagonisti, poi gradualmente vengono occupati da coristi in tenuta da spiaggia, incuranti di quello che sta succedendo mentre sorseggiano l’immancabile aperitivo. Mai come in questa regia, però, il brindisi che gli ospiti improvvisano – secondo lo stile musicale dei vari paesi da cui provengono – appare nel suo significato di inno europeo ante litteram: del resto, alla poetessa Corinna cui spetta il compito d’intonare un testo estratto a sorte (e nell’elenco qui figurano anche temi scottanti come Brexit o Trump), il caso assegnerà la celebrazione di Carlo X visto come illuminato pacificatore. Quanto alla conclusione dello spettacolo, è affidata a una carrozza trainata da due magnifici cavalli lipizzani (provengono dal grande allevamento di Lipizza, villaggio sloveno che si trova a pochi chilometri di distanza), che dalla stazione termale porterà gli ospiti a Parigi dove potranno prender parte almeno ai festeggiamenti per il nuovo sovrano.
Benché i personaggi siano moltissimi, lo spettacolo ne definisce le fisionomie una a una: il giovane cast (più di un cantante proveniva dall’Accademia Rossiniana di Pesaro) ha tratto vantaggio dall’accurato lavoro svolto da Blažević sulla gestualità, così come dai costumi di Sandra Decanić, tutti arpeggianti sulle varie gradazioni del bianco, ma arricchiti da dettagli capaci di fotografare l’essenza di ciascun ruolo. È emersa in primo luogo Irene Celle, una Corinna aggraziata che si trovava a cantare – con l’accompagnamento della sola arpa – affacciata a una finestra della stazione, ma si è imposta pure la versatile Lyaila Alamanova nei panni di Madama Cortese, la proprietaria della locanda termale. Nutsa Zakaidze ha interpretato una sussiegosa Marchesa Melibea, polacca, mentre Inés Lorans incarnava con humour la sconsiderata Contessa di Folleville, la cui unica preoccupazione – tale da farla svenire – sono le sorti dei suoi adorati cappellini. Ne sfoggiava uno particolarmente austero la sua cameriera Modestina, affidato all’arcigna Ireneja Nejka Čuk, mentre Maddalena, interpretata all’incisiva Marianna Acito, ne aveva uno più tradizionale da cuoca, come si conviene a una governante di locanda. Infine Delia, accompagnatrice di Corinna, date le sue origini greche, era sormontata da uno spiritoso copricapo a forma di capitello ionico: Alisa Izak ne fa un ritratto stralunato e sempre vocalmente puntuale.
Sul versante maschile si sono imposti per scioltezza scenica e correttezza vocale Valerio Morelli nelle vesti dell’inamidato inglese Lord Sidney e Ramiro Maturana in quelle del pedante tedesco Barone di Trombonok. Un Don Alvaro di guascona efficacia è stato Rok Bavčar, mentre il russo Conte di Libenskof – con un curioso effetto di straniamento – era interpretato dal congolese Patrick Kabongo, provvisto ovviamente di colbacco. Meno a loro agio Victor Jiménez Moral, come Cavalier Belfiore, e Matteo Guerzé, interprete dell’esilarante Don Profondo, erudito che pronuncia soltanto ovvietà, come sottolineato attraverso un tocco di proporzioni gigantesche che ne ribadisce la presunta autorevolezza. Tra i personaggi di minor spicco ben figuravano il medico Don Prudenzio con tanto di vistoso stetoscopio, cui dava sapore Diego Maffezzoni, e il bulimico Don Luigino, interpretato con un velo di malinconia da David Čadež.
Il direttore Marko Hribernik ha guidato con braccio sicuro l’orchestra del Teatro Nazionale Sloveno di Lubiana, formata anche da ottime prime parti (spesso chiamate in causa dalla musica di Rossini, e scenicamente valorizzate dalla regia), imprimendo all’esecuzione un piglio energico unito a un andamento scorrevole. È riuscito anche a non perdere mai di vista i cantanti – impresa assai meritoria, soprattutto all’aperto – pure nei passaggi più impegnativi, come il sestetto e nell’impressionante concertato a quattordici voci che conclude la prima parte dell’opera.
Giulia Vannoni