Home Vita della chiesa Incenso e lavabo, gli ultimi riti dalla Preparazione dei doni

Incenso e lavabo, gli ultimi riti dalla Preparazione dei doni

Il Rito della Preparazione dei doni è come una sinfonia che va in crescendo in velocità e volume; è anche simile al rullio di un aereo in corsa verso il punto in cui spicca il volo, o all’avanzare di una doppia trivella in galleria nel perforare la montagna da ambo i lati: quello finito dell’uomo e quello infinito di Dio.
Composto da molti riti (Preparazione dell’altare, Processione delle offerte e Canto d’offertorio, Benedizione del pane e del vino, Inchino del sacerdote, ecc.) procede, l’uno dopo l’altro, verso il suo compimento, alla stregua della crisalide che, improvvisamente, diventa qualcosa d’inatteso.

Dopo l’inchinarsi del sacerdote Umili e pentiti (v. Catechesi precedente), Pane e Vino, Altare, Sacerdote e Assemblea diventano un tutt’uno, mostrando pienamente Cristo quale Offerta (= vittima), Altare e Sacerdote (come Capo nel celebrante e come Corpo nei fedeli, Sacrosactum Concilium , 7d).
Siamo di fronte al vertice dell’agire umano: il creato (pane, vino) e ogni attività (lavoro dell’uomo) sono ri-condotti a Dio, alla sua sorgente, e l’uomo è innalzato e rivestito del sacerdozio di Cristo, una regalità divina a cui può partecipare perfino l’ultimo dalit dell’ultimo slum indiano.
Ma ci stiamo avvicinando anche al vertice dell’agire divino, poiché vediamo come materializzati in un tutt’uno la Vittima, l’Altare e il Sacerdote.

A questo punto tutto è ormai pronto per essere offerto a Dio (Pregate, fratelli, perché il mio e vostro sacrificio…) e perciò questo “tutt’uno” può essere prima incensato in segno di riverenza e di preghiera: «i <+cors>doni posti sull’altare, quindi la croce e lo stesso altare, per significare che l’offerta della Chiesa e la sua preghiera si innalzano come incenso al cospetto di Dio. Dopo l’incensazione dei doni e dell’altare, anche il sacerdote, in ragione del sacro ministero, e il popolo, per la sua dignità battesimale, possono ricevere l’incensazione dal diacono o da un altro ministro», Ordo Generale Messale Romano, 75.276; v. Catechesi: Incensazione dell’altare, n. 14).
Un rito facoltativo che affonda le sue radici nella liturgia bizantina del V sec. e che giunge in Occidente solo nel XII sec., per richiamare con forza il «sacrificio di soave odore» di Cristo (Ef 5,2).

L’ultima accelerazione della Preparazione dei doni è costituita dal Rito del Lavabo (dal lat. Laverò, la prima parola del Sal 26,6 che fin dai primi secoli accompagna questo gesto: Lavabo inter innocentes manus meas et circumdabo altare tuum, Domine – Laverò nell’innocenza le mie mani e giro attorno al tuo altare Signore), in cui il sacerdote, portandosi al lato dell’altare, «si lava le mani con l’acqua versatagli dal ministro, dicendo sottovoce: Lavami, Signore, da ogni colpa, purificami da ogni peccato» (OGMR 145).
È l’ultimo gesto – non facoltativo (Congregazione Culto Divino, Notitiae, 6, 1970, 38-39) – che prepara la Presentazione delle offerte a Dio Padre e (Pregate fratelli, perché il mio e vostro sacrificio) e che si conclude con la Preghiera sulle Offerte.

Con questo rito il sacerdote «esprime il desiderio di purificazione interiore» (OGMR 76), non a titolo privato, ma sempre come presidente dell’assemblea e quindi anche a nome dei fedeli, perché durante la Liturgia – non è superfluo ribadirlo – nessuno compie mai azioni private, cioè a titolo personale, ma sempre azioni personali a titolo ecclesiale, liturgico. Pertanto, in quel gesto “c’entriamo” tutti.
Si tratta di un rito presente in molte religioni, legato appunto alla necessità di affermare la purificazione interiore nello svolgimento del culto. La sua finalità non è quindi funzionale (come il lavarsi le mani prima di magiare), ma simbolica. Ce lo attesta Ippolito, Cipriano, Dionigi Areopagita e ancor prima Tertulliano (III sec.): «Può dirsi ragionevole pregare con le mani lavate, ma con lo spirito macchiato? Anche per le mani è richiesta una purezza spirituale per poterle innalzare purificate dalla falsità, dall’assassinio, dalla crudeltà, dal veneficio, dall’idolatria e da altre macchie che, concepite dallo spirito, vengono effettuate dalle mani», De Oratione, 13.

Secondo alcuni, il Lavabo deriva addirittura dalla Cena ebraica, che prevede nei suoi riti preliminari la lavanda della mani (U-rhaz) del capofamiglia da parte di qualche membro; un rito posto tra la Benedizione (Berakà) del vino e quella del pane (v. Catechesi: Benedetto sei Tu Signore, n. 54) e momento in cui sembra che Gesù si sia invece alzato a lavare i piedi dei discepoli per renderli, appunto, tutti mondi (Gv 13,10).
Per il sacerdote ebreo lavarsi le mani voleva anche dire “essere pronto”, affermare la sua “disponibilità” a celebrare il sacrificio.

Essendo un gesto presidenziale che avviene nel silenzio, deve essere ben visibile e comprensibile, ossia eloquente, nel senso che deve essere un vero «lavarsi la mani» (OGMR 76.145) e non una finta: dal polso alle dita, con una quantità di acqua sufficiente e un vero asciugamano (alla stregua di Gesù, Gv 13,5).
Quando invece si vede il sacerdote bagnarsi le punta dita con qualche goccia di acqua viene da chiedersi se deve tirare su i francobolli o se si inumidisce le dita per girare le pagine del Messale!
Più che un Lavabo ci sembra un “lavarsene le mani”…

Elisabetta Casadei

* Le catechesi liturgiche si tengono ogni domenica in Cattedrale alle 10.50 (prima della Messa