Immigrati, pregiudizi e realtà

    “Ero straniero e mi avete accolto…”. È un passo evangelico il filo conduttore del tradizionale incontro di spiritualità per gli operatori in ambito sociale e politico che si è svolto mercoledì 10 dicembre presso il Seminario Vescovile “Don Oreste Benzi”.
    Un’iniziativa diocesana che, come ha sottolineato il vescovo monsignor Lambiasi favorisce l’incontro fraterno e il dialogo tra chi è chiamato quotidianamente ad operare per il bene comune.
    L’immigrazione è stato il tema complesso, e alquanto spinoso per chi ha compiti amministrativi, affrontato dal relatore don Vittorio Nozza, direttore della Caritas italiana.

    “Siamo, da alcuni decenni, dentro uno dei fenomeni qualificanti per la nostra società senza assumere né la mentalità né le prassi giuste. Questo perché non si può contemporaneamente dichiarare di avere bisogno degli immigrati e non volere gli immigrati. Non si può essere per una società aperta, globalizzata e rischiare di ridurre questo fenomeno a un problema di politiche di puro ordine pubblico.
    Non si può, inoltre, esibire il tema dell’integrazione, soprattutto a partire dai nostri territori, senza riflettere contemporaneamente su cosa concretamente comporta costruire e incrementare relazioni tra diversi, favorire fiducia tra diversi, accoglienza tra diversi nei quartieri, nei paesi, nei servizi.
    I processi sociali, culturali e religiosi sono lenti, hanno bisogno di cura, di accompagnamento, di costante aggiustamento del loro percorso. E chiunque ha il compito di occuparsene deve imparare ad assumere i tratti di quella pazienza affettuosa, e se necessario, severa che accompagna con cura lo sviluppo, la promozione e la crescita di una cultura dell’accoglienza, della sicurezza, dell’integrazione e dell’intercultura”.

    La gestione delle complesse società multiculturali è ormai un compito al quale nessuno può sottrarsi.
    “Ad oltre tre decenni dall’inizio dei primi flussi migratori verso il nostro Paese, appare legittimo e urgente domandarsi quale sia la strada intrapresa verso l’integrazione e se, alla luce di quanto sta accadendo nei paesi europei di più lunga e massiccia immigrazione, stiamo percorrendo la strada giusta. Un modello nazionale di integrazione è ancora lungi dall’essere individuato”.

    Quali sono i nodi politici e sociali che ostacolano la creazione un ‘modello nazionale’ di integrazione (accoglienza, solidarietà, legalità e sicurezza)?
    “Le politiche sull’immigrazione, a distanza di alcuni decenni dall’inizio di questo fenomeno, sono anche in Italia ancora orientate principalmente verso l’emergenza, il contenimento e il controllo. Il fabbisogno di nuovi lavoratori immigrati e l’emergenza causata dal flusso di immigrati irregolari oscurano le situazioni di esclusione che si stanno consolidando tra le molte presenze ormai stabili e che, nelle forme più gravi, rischiano di diventare vere e proprie trappole di povertà.
    Negli ultimi anni ha continuato a pesare una condizione di precarietà esistenziale del cittadino immigrato e della sua famiglia, in particolar modo nei primi anni di permanenza in Italia.
    Nel contempo si è rafforzata la strumentalizzazione politica dell’immigrazione. In molte occasioni, infatti, gli immigrati sono diventati ostaggi di una politica e di un’informazione faziosa che ha preferito accentuare e generalizzare gli aspetti critici e problematici del fenomeno piuttosto che valorizzarne i punti di forza, condizione, questa, che rischia di consolidare nell’opinione pubblica un giudizio negativo del migrante e della sua esperienza nel Paese”.

    E a livello sociale?
    “La percezione generalizzata presso l‘opinione pubblica è che l’immigrazione di per sé costituisce un problema, e dà luogo in alcuni casi ad atteggiamenti di aperta ostilità. Ciò talvolta è alimentato da un’informazione incompleta e fuorviante da parte dei mezzi di comunicazione.
    Gli immigrati svolgono per lo più attività usuranti e mal retribuite e, spesso, nonostante ne abbiano i requisiti sono senza un regolare contratto di lavoro. Molte volte sono costretti a vere e proprie forme di schiavitù, sia tra le mura domestiche che nei cantieri, nell’agricoltura o nei laboratori artigianali.
    Il diffuso e pesante problema abitativo, inoltre, è un’emergenza non più rinviabile. C’è, infatti, la difficoltà a reperire alloggi, motivata spesso dalla non disponibilità dei proprietari verso gli stranieri.
    Esiste poi il fenomeno della criminalità. È necessario superare l’equazione immigrato uguale criminale anche se una significativa percentuale di cittadini immigrati ha problemi con la giustizia. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta, però, di persone in posizione irregolare e per di più condannate per reati di lieve entità. Gli immigrati regolari delinquono percentualmente meno degli italiani”.

    È possibile un’integrazione con chi cerca futuro nel nostro Paese?
    “In Italia persiste una integrazione subalterna di tipo funzionale-utilitarista, ovvero un processo legato a doppio filo alla dimensione economica del migrante. L’integrazione, invece, è una questione di relazioni tra persone di diverse appartenenze e identità che condividono lo stesso spazio fisico, sociale, amministrativo, politico e religioso. Non sono quindi le diverse culture che si incontrano o si scontrano, ma le persone che ne sono portatrici”.

    Come si può agire?
    “Attraverso l’educazione alla legalità. Costruendo sicurezza e moltiplicando azioni di giustizia e di solidarietà.
    Occorre allontanare la povertà, non i poveri. Da Berlino, qualche mese fa, Barack Obama presidente e simbolo meticcio della contemporaneità, ha affermato la necessità di “abbattere tutti i muri che ancora dividono i popoli e le razze, i ricchi dai poveri”.E noi? Noi siamo impegnati ad ergere il patetico muro di Lampedusa. Naturalmente è la solita bugia che il territorio nazionale sia minacciato da un’invasione di “clandestini” tale da richiedere la proclamazione dello “stato d’emergenza”. Al contrario, una vera e pesante emergenza scatterebbe nella malaugurata ipotesi che i lavoratori immigrati privi di permesso di soggiorno abbandonassero, da mattina a sera, le nostre aziende e le nostre famiglie. Logica vorrebbe invece che, come antidoto ai flussi incontrollati, venissero promosse nuove procedure d’immigrazione regolare. Gli stranieri, invece, continueranno ad arrivare con permessi turistici per essere assunti in nero. Resteranno le estenuanti pratiche di rinnovo del permesso di soggiorno, e nel frattempo anche i regolari che perdono il lavoro verranno lasciati precipitare nel gorgo dell’illegalità. Perché nel Paese dell’economia sommersa il sopruso e l’ingiustizia convengono a molti”.

    Come favorire il dialogo interreligioso?
    “Dialogare è possibile ascoltandosi reciprocamente senza pregiudizi. Perché solo così ci si potrà sempre meglio comprendere, e offrire “un servizio autentico di pace e riconciliazione” a tutta l’umanità, incrollabilmente consapevoli “che il nome di Dio può essere solo un nome di pace e fratellanza, giustizia e amore”. È come una sfida “a dimostrare, con le parole e soprattutto con le azioni, che il messaggio delle nostre religioni è di armonia e di comprensione reciproca”. Dialogare significa accogliersi l’un l’altro, comprendersi gli uni con gli altri, vivere insieme e condividere, talvolta osare e rischiare sempre.
    È proprio il servizio evangelico dell’uomo come persona, famiglia e società, che può rivelare a tutti l’autenticità della proposta cristiana e la grandezza delle sue promesse. La fede e le opere vanno sempre di pari passo: questo principio è valido tanto per i cristiani quanto per i musulmani. Pertanto la condizione del cristiano che agisce nella dimensione della carità è proprio quella di una ‘sfida evangelica’”.

    Qual è il ruolo del cristiano di fronte all’immigrazione?
    “Occorre una spiritualità che, facendosi prossima delle situazioni di bisogno, di disagio e di sfruttamento, interroga la vita dell’intera comunità, le sue attività ordinarie, il senso profondo di gesti spesso dati per scontati (dal segno di pace, alla frazione del pane al servizio di carità…). Essa è capace di tenuta di fronte alle prove e agli insuccessi, accetta la fatica del servizio meno gratificante, vede un cammino di salvezza anche nelle situazioni umane più degradate, che mette in crisi l’efficienza, paga dei suoi risultati.
    È una spiritualità che ci porta a fare la proposta, per le comunità parrocchiali, di stili di vita alternativi alla cultura e alle mode correnti: l’attenzione ai poveri; l’uso ricco di gratuità del proprio tempo e del proprio denaro; il senso e la dignità dell’altro; l’accoglienza e il rispetto della diversità; l’apertura delle proprie case; una qualche forma di condivisione dei beni; il rifiuto dello spirito di cosificazione, di litigiosità e di maldicenza; le molteplici azioni di ascolto, di relazione, di dialogo e di riconciliazione nei contesti di vita ordinaria”.

    Francesco Perez