Riprendiamo la vicenda di Amos Piccini e del Fratello Walter. Fuggiti da Rimini nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Ufficialmente “alla macchia” i due si trovarono in una città distrutta dai bombardamenti e con l’obbligo di “andare alle armi”, dopo la formazione della Repubblica di Salò, per tutti i nati nel primo quadrimestre del 1926. Fu in seguito a questa ordinanza nello specifico, che i due fratelli cominciarono il viaggio nell’ombra di nascondigli di fortuna.
Fino al 21 settembre 1944, data della liberazione di Rimini, vissi con mio fratello alla macchia, nascondendomi con altri che erano nelle mie condizioni, in vari rifugi. Uno lo approntammo in mezzo ad un campo agricolo, sotto terra, lungo 2,5 metri e largo poco più di uno e ci potevamo stare, seduti, 4 o 5 giovani e per breve tempo; ossia quello necessario a nasconderci durante i rastrellamenti dei tedeschi e dei repubblichini. Era stata fatta una copertura di canne intrecciate e legate, sulla quale veniva gettata la terra dello stesso campo. La cosa più faticosa e difficile era respirare e per questo avevamo un pezzo di canna che infilato sotto il tetto fuoriusciva per quel poco che bastava per far entrare un po’ d’aria nei polmoni. Poi dovemmo andar via, perché i tedeschi oltre ai rastrellamenti requisivano anche le case coloniche.
Ancora rifugi
Un altro rifugio più grande lo facemmo scavando una piccola galleria, sostenendola con pali, in un pendio di una collinetta che da un lato scendeva scoscesa verso il sottostante torrente Uso, nella zona di Poggio Berni. Aveva un’apertura rivolta a ovest e uno stretto e corto sentierino a strapiombo che gli girava intorno e la collegava con una seconda uscita più piccola, che avevamo fatto per un’eventuale via di fuga. Eravamo una decina, ci fermammo per diversi giorni, notti comprese. Per il mangiare uscivamo di sera andando a chiedere qualcosa nelle case coloniche non distanti. Eravamo disposti a pagare: pane, frutta, qualche uovo, salumi ma nessuno volle essere pagato. Ci fu una vera dimostrazione di solidarietà da parte dei contadini. Ma un giorno, nel primo pomeriggio, mentre stavamo discutendo della nostra situazione, io mi trovavo vicino all’entrata più grande, vidi entrare dal secondo ingresso a strapiombo, un soldato tedesco. Era in camicia, senza armi. Io afferrai un piccone, in pochi secondi feci il giro del sentiero e gli arrivai alle spalle. Lui sentì che stavo entrando e capì dove era capitato e con comprensibile timore e altrettanta intelligenza guardò me e gli altri e disse: “Voi volete fumare?” e tirò fuori un pacchetto di sigarette e ce le offrì. Rimase con noi il tempo della fumata, disse che gli piaceva la zona dove ci trovavamo e dopo vaghe frasi di circostanza lentamente uscì da dove era venuto.
Non appena si allontanò, abbandonammo in fretta il rifugio, ormai scoperto. Fummo però d’accordo nel ritenere che non ci aveva denunciati, perché i tedeschi armati avrebbero avuto il tempo di inseguirci e probabilmente catturarci. Non possiamo dimenticare che il 14 agosto del 1944 erano stati impiccati in piazza Giulio Cesare (oggi piazza Tre Martiri) i tre partigiani riminesi: Mario Cappelli, Luigi Nicolò e Adelmo Pagliarani.
Il ricongiungimento
familiare
Ma il più grosso pericolo per me e mio fratello fu quando raggiungemmo i nostri familiari, che dopo Santarcangelo e Poggio Berni erano sfollati alle Fratte di Torriana ai primi di settembre. Mi ero nascosto in una grotta dove c’erano una ventina di donne, comprese mia madre e mia sorella. Io avevo messo una sottana sopra i calzoni arrotolati fino alle ginocchia e in testa un fazzolettone da donna e stavo rannicchiato in mezzo a loro. Mi ricordo che alcune donne furono obbligate dai tedeschi a cucinare per loro, mentre noi non mangiavamo da più di un giorno. Mia madre e mia sorella erano veramente impaurite e chiesero a me e a mio fratello di approfittare del fatto che i tedeschi – avendo requisito le case adiacenti – stessero mangiando per andare nella vicina abitazione dove eravamo sfollati e recuperare un po’ di cibo. Era da poco passato mezzogiorno.
Con mio fratello, che era nascosto poco distante, decidemmo di tentare: io feci l’errore (per muovermi meglio) di togliermi sottana e fazzoletto. Facemmo pochi passi e due soldati tedeschi con il mitra impugnato ci ordinarono di seguirli.
L’incontro
con i tedeschi
Dovevamo portare un tedesco ferito sdraiato dentro un carretto, tirando come somari e sventolando una bandiera della Croce Rossa partendo da 300 metri di altezza, e in mezzo a una fitta vegetazione, fino all’ospedale da campo che si trovava in piano, presso il torrente Uso. Vicino all’ospedale, c’era una batteria di cannoni che a brevi intervalli apriva il fuoco verso le linee nemiche e questo aggravava le nostre paure perché gli alleati avrebbero potuto individuare da dove partivano le cannonate. Restammo rinchiusi in una camera di una vicina casa per almeno un paio d’ore e ad un certo momento un soldato tedesco fece entrare altri due uomini. Purtroppo uno era mio padre, che sebbene avesse 55 anni era stato costretto a fare la stessa pericolosa e faticosa operazione. Poi trascorse altre due ore, ci obbligarono tutti e quattro a ripartire col carretto vuoto, scortati da un tedesco con il mitra per ripetere il trasporto di altri feriti. Ma come avevamo paventato, incominciò un bombardamento delle artiglierie alleate tanto da sembrare una vera grandinata. Ci gettammo a terra per salvarci da quel mortale pericolo e con mio fratello prendemmo una estrema decisione: al primo rinnovo di quella pioggia di granate fuggimmo facendo capire a nostro padre le nostre intenzioni. Lui saggiamente ci fece intendere che non poteva farlo subito ma in seguito anche lui fuggì assieme ad un altro uomo che abitava nei paraggi.
La fuga
La nostra fu una fuga da velocisti, frammezzata da tuffi a terra per evitare le bombe che continuavano ad accompagnarci. Arrivammo fino alla vetta della montagna di Torriana e ci nascondemmo dentro ad una spaccatura della roccia. A tarda sera io salutai mio fratello che scelse un’altra strada mentre io mi diressi a casa presso il fiume Marecchia. L’anziano proprietario e sua figlia mi consentirono di dormire sopra un materasso in una camera dove non vi era più la mobilia. Moltissima fu la meraviglia e il timore quando verso le sette mentre mi alzavo, vidi arrivare due soldati inglesi, che in discreto italiano mi dissero “Come stare? Tu fascista?”. Io risposi di no e loro sorridendo maliziosamente (non c’erano forse più i fascisti?) mi diedero il buon giorno e se ne andarono.
Ma la paura vera arrivò poco dopo: due soldati gurka, con mitra e pugnale alla cintola vennero verso di me. Mi guardarono, mi girarono intorno senza parlare. Fortunatamente giunse subito un ufficiale inglese che li congedò e in italiano mi chiese se potevo dirgli dove si erano ritirati i tedeschi, cosa che io feci e lui mi ringraziò. Lo stesso notò che l’uomo che mi aveva ospitato aveva un orologio da taschino e molto bello. Allora disse: “Tu dare a me orologio io dare a te scarponi. Ok?”. L’uomo tergiversava perché quello scambio non gli sembrava conveniente e in più mi disse che era un ricordo del suo pensionamento da ferroviere. Pur comprendendo la sua riluttanza lo consigliai di non insistere nel rifiuto, perché quello era un momento molto pericoloso. Lui accettò la proposta dell’inglese e gli consegnò l’orologio. Io me ne andai poco dopo e non ho più saputo se quel tale avesse ricevuto gli scarponi… Di questo episodio ho fatto un simpatico quadretto nella mia prima commedia La fiòla dla Delina, presentata in teatro tanti anni dopo.
Lasciai quella casa e arrivai al fiume Marecchia. Cercai un punto dove l’acqua era bassa per poterlo attraversare ma un soldato indiano mi gridò: “Alt! Non passare. Mine!”. Vidi poco distante da me altri militari che cercavano, appunto, di disinnescarle e loro mi indicarono dove potevo attraversare. E così me la cavai anche in quella occasione. Rientrai a Poggio Berni e nella stessa notte vi fu un bombardamento della zona da parte di parecchi tedeschi e fu l’ultima notte di paura.
Verso la fine
Il 25 aprile del 1945 vi fu l’insurrezione partigiana a Milano. Pochi giorni dopo, il 28 aprile, venne fucilato Benito Mussolini. Il resto è storia: il 6 agosto del 1945 lo sganciamento della bomba a Hiroshima e Nagasaki e il 2 settembre dello stesso anno la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Amos Piccini