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Il verismo nella voce

Al centro, il soprano Barno Ismatullaeva (Francesca) insieme alle sue damigelle © Gaido Ratti

Francesca da Rimini, l’opera di Zandonai su libretto di D’Annunzio, in scena al Teatro Regio di Torino 

TORINO, 19 ottobre 2025 – Non è vero che le sperimentazioni operistiche siano solo una prerogativa degli ultimi tempi. Anche a inizio novecento un compositore come Riccardo Zandonai aveva cercato – lo testimonia la sua Francesca da Rimini su versi di D’Annunzio – di misurarsi con le novità musicali che arrivavano da più fronti: dal declamato di Strauss all’esotismo francese, fino a qualche remota eco della seconda scuola di Vienna. Mantiene fermi, però, i pilastri della tradizione: soprattutto l’eredità del verismo, che peraltro stava ormai esaurendo la propria spinta propulsiva, ma che Zandonai aveva assimilato fin dai suoi anni di studio con Mascagni al conservatorio di Pesaro.

Il soprano Barno Ismatullaeva (Francesca) © Gaido Ratti

Seppure oggi di rara esecuzione, Francesca da Rimini – la sua opera più nota – dimostra, dunque, quanto il compositore di Rovereto fosse attento a tutte queste sollecitazioni, spesso di segno contrastante, e soprattutto avesse la capacità di restituirle attraverso la sua scrittura. Lo si coglie molto bene nello spettacolo in scena in questi giorni al Regio di Torino (dove l’opera debuttò il 19 febbraio 1914), essenzialmente per merito di Andrea Battistoni.
Il neodirettore musicale del teatro torinese ha infatti saputo esaltare – grazie anche alla risposta dell’ottima orchestra – l’eterogeneità delle suggestioni musicali, che vanno al di là della mera componente verista, trasformandola nella principale attrattiva della propria lettura. Se in passato molti direttori tendevano a leggere quest’opera in chiave “mascagnana”, assegnandole così a posteriori un’unitarietà che la musica non possiede, Battistoni ha invece puntato a valorizzare la modernità di Zandonai e la sua capacità d’intercettare le principali novità europee. D’altra parte la genesi di quest’opera è abbastanza anomala, dato che per Francesca da Rimini non si può parlare di collaborazione tra librettista e compositore. La monumentale ‘tragedia in cinque atti’ dannunziana era nata per la Duse nel 1901: il poeta auspicava solo un sottofondo sonoro, convinto che la musicalità con cui aveva costruito i suoi versi fosse già del tutto sufficiente; e poco gli importava che alla prima rappresentazione il pubblico fosse rimasto sconcertato dalla ridondanza del testo. Ripensandola per la scena musicale, l’editore Tito Ricordi l’aveva però fortemente ridimensionata, tra l’altro riducendola a quattro atti.

Se Battistoni preferisce affidare semmai alle sole voci la componente verista, il regista Andrea Bernard invece si muove perlopiù in quest’ottica, creando una discrasia con l’esecuzione musicale. Prevalgono gli aspetti passionali del rapporto tra i due amanti, con una Francesca fin troppo volitiva: una visione che non trova però il suo corrispettivo nella musica. Lo spettacolo viene ambientato in un tardo ottocento, ben riassunto dai costumi di Elena Beccaro e dai pochi elementi d’arredo (scenografia minimalista ed elegante di Alberto Beltrane): una visualità lontana sia dal medioevo dantesco sia dalle atmosfere neogotiche – astratte e di maniera – che caratterizzavano il primo novecento italiano. Ciò che manca è soprattutto una direzionalità precisa: la regia si disperde fra molte trovate (l’uccisione fuori scena del giullare, le scarpette rosse di lei prima di essere assassinata dal marito, il campo fiorito dove i due amanti si ritrovano contrapposto alle visualità pulp del penultimo quadro…), che finiscono per sovraccaricare un testo già verboso. E, soprattutto, si perde fatalmente di vista l’icastica potenza delle terzine dantesche del V canto dell’Inferno.

Il verismo della vocalità viene restituito dai cantanti, declinato da ciascuno in base alle proprie caratteristiche. La protagonista Barno Ismatullaeva – soprano uzbeko dotata di notevoli mezzi, ma pure di grande duttilità nel fletterli – unisce passionalità e interiorizzazione. Il tenore argentino Marcelo Puente ha interpretato Paolo con emissione salda e relativa povertà di sfumature, almeno rispetto alla collega. Il baritono George Gagnidze è stato un Gianciotto in grado d’incutere spavento non tanto per l’aspetto fisico (la regia non ne fa lo sciancato previsto dal libretto), ma per la capacità di governare una voce possente, piegandola anche a sprazzi d’introspezione. Il tenore Matteo Mezzaro, con un’atletica gestualità e un canto  volutamente sopra le righe, è riuscito a rendere tutto il rancore e il sadismo di Malatestino.

Il soprano Valentina Boi interpretava Samaritana, sorella della protagonista, con vocalità fin troppo pesante rispetto a come viene caratterizza dalla regia: fragile e malata, su una sedia a rotelle. Anche il fratello Ostasio è trasformato in un personaggio claudicante (quasi in sostituzione di Gianciotto): scelta che non impensierisce il robusto ed espressivo baritono Devid Cecconi. Il mezzosoprano Silvia Beltrami è stata una corretta ancella Smaragdi, mentre nel piccolo ruolo del giullare molto apprezzabile è apparso il baritono Janusz Nozek. E se non è possibile citare tutti gli altri, vale la pena menzionare le quattro damigelle: i soprani Valentina Mastrangelo e Albina Tonkikh, i mezzosoprani Martina Myskohlid e Sofia Koberidze. Portano una ventata di struggente empatia e leggerezza nei confronti della protagonista, che nessun familiare – neppure il suo amato Paolo – riesce mai a manifestare. Un’oasi nel cupo maschilismo della tragedia.

Giulia  Vannoni