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Il termometro della provincia

Una scena di Cavalleria Rusticana - Ph©Rolando Paolo Guerzoni

Al Teatro Galli il dittico formato da Cavalleria rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo 

RIMINI, 11 aprile 2025 – È ormai sempre più raro vedere in scena il classico binomio Cavalleria rusticana e Pagliacci, due brevi opere nate a distanza ravvicinata: l’una nel 1890, l’altra nel 1892. Oggi vengono proposte persino singolarmente o, più spesso, abbinate ad altri titoli, seguendo macchinosi accostamenti che sembrano pure azzardati. Ritornano invece abbinate in una nuova coproduzione realizzata dai teatri di Modena, Piacenza, Sofia e Rimini, dove sono approdate però con vistosi cambiamenti nella compagnia di canto rispetto a quella originaria delle due città emiliane. Purtroppo al Teatro Galli quasi tutti gli interpreti erano stranieri: un problema non da poco, perché con due opere italianissime come queste (la prima tratta da Verga, la seconda da un contemporaneo caso di cronaca nera) l’idiomaticità diventa un requisito fondamentale.

Cavalleria Rusticana, il soprano Teresa Romano (Santuzza) – Ph©Rolando Paolo Guerzoni

Del cast iniziale di Cavalleria è rimasta per fortuna l’ottima Teresa Romano, che ha disegnato un’appassionata Santuzza grazie a una voce piena, in grado di salire con assoluta naturalezza da calde sonorità mezzosopranili all’acuto, mantenendo sempre un bel colore scuro. Attorno a lei, però, orbitava uno sbiadito contorno: il baritono Fabián Veloz, apparso piuttosto a disagio come Alfio fin dal suo esordio Il cavallo scalpita, mentre un’esangue Shai Bloch era Mamma Lucia, un ruolo che richiederebbe spessore contraltile. E se Francesca Cucuzza è venuta a capo del meno impegnativo personaggio di Lola, del tutto inadeguato come Turiddu è stato il tenore Sung-Kyu Park, per un’emissione interamente di forza e spesso fuori controllo, con inevitabili momenti di afonia (inspiegabilmente, non ha cantato la famosa ‘siciliana’ O Lola ch’hai di latti la cammisa).

Migliore la situazione sul versante strumentale. Il direttore Aldo Sisillo ha tratto suadenti sonorità da un’Orchestra Toscanini in buona forma. Discutibili, semmai, alcune scelte agogiche e nella gestione dei tempi, forse compiute nell’intento di agevolare i cantanti. In questo modo, però, è venuto meno il principale motivo di fascino della partitura: ossia la sua potenza e concisione drammatica, mentre sono affiorati tutti i limiti dell’orchestrazione mascagnana, che in una lettura più serrata passano in secondo piano.

Nonostante la suggestiva e versatile scenografia di Giacomo Andrico, mantenuta anche in Pagliacci, lo spettacolo del regista bulgaro Plamen Kartaloff coglie solo parzialmente la ‘couleur locale’ della provincia meridionale italiana, che in Cavalleria è tutt’altro che un dettaglio. La processione di Pasqua, poi, è stata realizzata in modo talmente improfessionale – con le statue traballanti della Vergine e di Cristo – da sfiorare quasi il grottesco.

Decisamente migliori sia esecuzione sia messinscena – grazie anche ai vivaci costumi di Nella Emil – in Pagliacci, la raffinata opera di Leoncavallo considerata manifesto del Verismo musicale, i cui intenti vengono proclamati dal baritono nel prologo. Al centro della scena è collocato il teatrino su cui la rappresentazione scenica s’intreccia alla tragedia. Ad animarlo contribuiscono il Coro Lirico di Modena (preparato da Corrado Casati), già coinvolto in Cavalleria, con l’aggiunta delle Voci Bianche, sempre modenesi: un gruppo di vivaci ragazzini ben istruiti da Paolo Gattolin.

Fra gli interpreti emergeva il soprano Daniela Schillaci, che nei panni di Nedda ha dimostrato duttilità scenica (rievocava la Gelsomina felliniana), sicurezza vocale e notevole espressività soprattutto nella sua ‘ballatella’. Anche Fabián Veloz, nel ruolo di Tonio, è stato assai più convincente nell’opera di Leoncavallo. Il tenore Giuseppe Infantino ha interpretato Peppe – alias Arlecchino – con una certa efficacia, mentre il corretto baritono Hae Kang era un Silvio ben centrato. L’anello più debole si è rivelato ancora il tenore Sung-Kyu Park: il suo Ridi, Pagliaccio ha rappresentato l’ennesima occasione mancata.

Quando un tempo si parlava dei teatri di provincia in un’accezione negativa, riferendosi a luoghi dove si potevano proporre al pubblico anche messinscene un po’ rabberciate, spettacoli come questi venivano definiti “spedizioni punitive”. Forse qui si è assistito a qualcosa di simile. Peccato, perché la gloriosa tradizione del Teatro Vittorio Emanuele – così si chiamava il Galli – non indicava certo questa direzione.

Giulia  Vannoni