Home Cultura Il senso tragico dell’Umanesimo. L’Alberti e il Duomo

Il senso tragico dell’Umanesimo. L’Alberti e il Duomo

Massimo Cacciari e il suo senso tragico dell’Umanesimo sbarcano all’Università di Rimini. Come fosse un’agorà dei tempi moderni, l’aula magna del polo riminese si è trasformata nell’antica piazza greca dei filosofi, dove a far capolino c’è Massimo Cacciari. Lui, veneziano doc e tra i più grandi pensatori viventi è andato oltre ogni previsione del “tutto esaurito”. Non è bastata l’aula magna, e nemmeno un’ennesimo spazio altrettanto grande. In molti, in religioso silenzio, sono rimasti ad ascoltare nei corridoi e lungo le scale.
Venerdì 27 gennaio. In occasione del secondo ciclo della rassegna “I maestri del tempo. Letture inedite di artisti e opere a Rimini dal Medioevo al Novecento” a cura di Alessandro Giovanardi, il filosofo e politico Cacciari ha esaminato il senso tragico dell’Umanesimo, partendo dai testi teorici, pittorici e architettonici di Leon Battista Alberti e Piero della Francesca. Entrambi vissuti nello stesso periodo e entrambi vicini alla realtà riminese. “Furono loro, con la loro forza e la potenza di vedere ciò che è reale, a rappresentare tutta la tragicità del periodo che stavano vivendo, ovvero il 1453, anno della caduta di Costantinopoli, un vero e proprio dramma per la cristianità”<+testo_band>. E di quel periodo il noto quadro della Flagellazione di Urbino, <+cors>“ci parla nei dettagli dell’impotenza della cristianità di fronte a un ciclo che è terminato”. Il capolavoro di tessitura prospettica “è allo stesso tempo un enigma al quale tanti hanno cercato di dare una risposta. Difficile dire quale sia l’assoluta verità”. E allora? Cosa c’entra questo con il senso tragico dell’umanesimo? >“Ogni epoca di passaggio, di cambiamento è stata tragica. Ieri come oggi. La grandezza di questi due personaggi è aver rappresentato il visibile, usando i numeri in maniera fenomenica. Partendo in primis dalla prospettiva ma anche dall’uso dei segni polivalenti”.
E Rimini, come ha sottolineato più volte lo stesso relatore, ha la fortuna di avere tra il suo patrimonio culturale entrambi gli artisti che con i loro strumenti hanno “fermato” nel tempo un momento storico preciso, quello della caduta del cristianesimo, come lo si era inteso fino ad allora. Era il 1451 quando Piero della Francesca fu chiamato da Sigismondo Pandolfo Malatesta a lavorare al Tempio Malatestiano dove lasciò l’affresco votivo monumentale con San Sigismondo e Sigismondo Pandolfo Malatesta. Qui probabilmente poté conoscere Leon Battista Alberti, anch’egli chiamato dai Malatesta per trasformare la chiesa di San Francesco in un tempio in onore e gloria della sua famiglia.

Marzia Caserio