Tra i filoni più in voga per scatenare commenti facili su Facebook c’è quello dei “No laurea”: una tendenza a screditare la formazione universitaria come vacuo indottrinamento laddove per potersi districare nelle cose della vita sarebbe sufficiente un’istruzione basilare. Il post emblematico è quello del bimbo in bianco e nero davanti a una cartina geografica, con grembiule e fiocchetto anni 60, e didascalia tipo “ ah una volta quando si conosceva la geografia”. La scontata reazione, su un social network ampiamente frequentato da boomer e pensionati, è un plauso ai bei tempi, un autoincensamento della propria istruzione e una condanna alla decadenza scolastica.
“Eravamo poveri ma istruiti. Ora hanno tutto e non sanno neanche dove stanno di casa”; “Quella era vera scuola”; “Adesso l’ignoranza è dilagante… non sanno niente i nostri ragazzi”. Poi arrivano quelli che buttano il carico pesante: “Gli scolari della quinta elementare degli anni ‘40-’50 possono scolarizzare gli attuali diplomati e laureati. Costoro non conoscono nessuna cultura anche elementare”; “Io non laureato mi diverto da matti a fare impazzire i laureati di oggi. Intelligenza critica zero”.
Non mi sento di condannare queste botte d’orgoglio da bar, nella loro puerile superbia fanno quasi tenerezza. E magari anch’io, se avrò la fortuna di arrivare alla terza età, un giorno entrerò nello stato “una volta era meglio!”. Quel che non vorrei accadesse è che questi pensieri vengano assorbiti dai nipoti, risorse intellettuali su cui puntare per il futuro. Poi leggo che, per quanto gli studi universitari siano impegnativi (e costosi), le immatricolazioni all’Università di Bologna compresa Rimini sono ancora in crescita. E un po’ mi rincuoro. Anche perché le immatricolazioni all’università della vita ormai sono chiuse per raggiunto limite massimo.