Sarà l’unico “riminese” presente in Conclave. Il cardinale Pierbattista Pizzaballa – dal 2023 patriarca di Gerusalemme ha compiuto 60 anni proprio nel giorno in cui è morto papa Francesco.
Originario di Cologno al Serio, francescano, per lunghi anni ha avuto il compito di custode di Terra Santa. A metà degli anni ’70, la famiglia Pizzaballa aveva deciso di mandare i fratelli maggiori di Pierbattista in un convitto di Rimini per “respirare l’aria di mare”, a causa della salute cagionevole. Anche Pierbattista fu mandato nella colonia estiva del Santo Volto a Miramare, gestita dalle suore della congregazione Sorelle dell’Immacolata.
“All’epoca io ero il cappellano. Andavo a celebrare la messa alla colonia di Miramare ogni domenica. Lì conobbi Pierbattista Pizzaballa…”, ricorda padre Giovanni Bianchi, per 19 anni rettore del seminario al Santuario delle Grazie a Covignano e ora parroco nel Cesenate.
Poi, dal 1976 al 1981, il futuro cardinale Pierbattista Pizzaballa ha frequentato il seminario minore dei frati al Santuario delle Grazie a Rimini per i tre anni delle medie e i due anni di ginnasio, per proseguire poi gli studi al seminario arcivescovile di Ferrara. Si è trasferito in Terra Santa, a Gerusalemme, nell’ottobre 1990. Pizzaballa è stato anche più volte ospite del Meeting per l’amicizia fra i popoli, di cui ha inaugurato l’edizione 2024 con l’incontro “La civiltà si costruisce con l’altro”.
L’impatto che la guerra in corso a Gaza ha avuto sulle popolazioni israeliana e palestinese “è unico, senza precedenti. È evidente l’incapacità a riconoscere l’esistenza dell’altro. Io e nessun altro”, disse tra l’altro in quell’occasione Pizzaballa.
Papa Francesco il 24 ottobre 2020 lo ha nominato Patriarca Latino di Gerusalemme. Parla italiano, ebraico moderno, inglese.
Abbiamo chiesto a mons. Nicolò Anselmi, vescovo di Rimini, di condividere le sue riflessioni sul Papa venuto “dalla fine del mondo”, che per dodici anni ha guidato la Chiesa universale con uno stile inconfondibile di misericordia, prossimità e coraggio evangelico.
Vescovo Nicolò, come ha accolto la notizia della morte di Papa Francesco?
“La notizia che Dio Padre aveva chiamato a sé Papa Francesco è arrivata come un lampo. Il Santo Padre ha concluso il suo pellegrinaggio terreno: ha svolto con fedeltà e amore il compito che lo Spirito Santo gli aveva affidato, ed ora riposa nella Casa del Padre.
Il fatto che sia salito al Cielo proprio nel giorno della Risurrezione di Cristo ci parla di vita più che di morte.
Per tutta la Chiesa, è un momento di dolore profondo, ma anche di grande gratitudine. Il Santo Padre è stato per noi come un familiare: ci ha aperto il cuore, ci ha resi partecipi della sua umanità, della sua fede, del suo modo di vivere e di pensare. Sentiamo un vuoto, certo, ma anche una grande riconoscenza al Signore per avercelo donato.
Per dodici anni ha guidato la Chiesa con coraggio, lucidità e verità, sempre attento agli ultimi, ai fragili, ai dimenticati. In questi giorni pasquali, lo immaginiamo già nella Casa del Padre, a intercedere per i suoi carcerati, i migranti, i poveri, i malati, i bambini, le famiglie”.
Ha avuto l’occasione di incontrare più volte Papa Francesco. Che ricordi porta con sé?
“Due incontri in particolare mi restano nel cuore. Il primo quando fui nominato Vescovo ausiliare di Genova, il secondo in occasione della nomina a Vescovo di Rimini. In entrambi i casi, il Papa mi fece sentire accolto, ascoltato, voluto bene. Realizzava ciò che annunciava: uno stile di vicinanza e ascolto autentico.
Avevamo anche parlato dell’eventualità di una sua visita a Rimini per ricordare don Oreste, che conosceva e stimava. Mi aveva detto: «Vengo, vengo a Rimini».
Papa Francesco era così: semplice, diretto, profondamente umano. Il Vangelo che predicava lo incarnava nella vita quotidiana”.
Quale eredità spirituale lascia Papa Francesco alla Chiesa?
“Una eredità che ci invita a una vita interiore profonda, da cui nasce naturalmente l’attenzione agli altri, soprattutto ai più poveri.
Ci ha entusiasmati il suo desiderio di una Chiesa in uscita, coraggiosa, missionaria. Non voleva una Chiesa chiusa, impaurita, ma una comunità capace di essere lievito nella società. Ci ha restituito l’anima più profonda della Chiesa: un’anima evangelica, gioiosa, capace di mettersi in cammino verso gli altri”.
Sin dal primo affaccio in Piazza San Pietro, Papa Francesco ha stupito il mondo…
“Sì, definendosi ‘un Papa venuto dall’altra parte del mondo’. Ed era proprio quello che ci voleva. La sua esperienza a Buenos Aires, dove ha conosciuto da vicino le disuguaglianze, ha dato autenticità alle sue parole. Non parlava di povertà, parlava da povero, da chi ha visto le baraccopoli e i grattacieli convivere nella stessa città.
La sua passione per i migranti, per l’ambiente, per i dimenticati era autentica, vissuta.
I suoi gesti hanno spesso parlato più delle parole. Il suo stile di umanità profonda ha dato corpo al principio dell’Incarnazione: Dio che viene incontro a tutti. Papa Francesco ha vissuto così, andando incontro a ciascuno.
Ha avuto una forte sensibilità per la pace, per il dramma delle guerre, per la custodia del creato. La sua visione era profetica. E la sua formazione gesuitica ci ha ridato il valore del discernimento, della coscienza, della profondità”.
È stato il Papa della Chiesa in uscita.
“La sua insistenza sulla missionarietà ha dato vigore a tutta la Chiesa. Non siamo chiamati ad essere una maggioranza numerica, ma una presenza significativa: missionari nel cuore del mondo, lievito nella pasta, luce nel buio, sale della terra.
Papa Francesco ci ha ricordato con forza che la Chiesa non può vivere chiusa in sé stessa, nelle sue sicurezze, nei suoi confini. Deve uscire, farsi prossima, rischiare, incontrare, camminare con gli uomini e le donne del nostro tempo, in ogni periferia esistenziale.
Ha ridato vita alla Chiesa, ma anche alla mia vita personale e ministeriale. Ci ha restituito il gusto del Vangelo vissuto, il coraggio della testimonianza, la bellezza della prossimità.
Ci ha vietato di essere tristi e lamentosi, ci ha liberati da una visione cupa e giudicante, per restituirci il volto di una Chiesa che accoglie, che ascolta, che accompagna.
Una Chiesa che mette al centro la persona e la coscienza, che non condanna ma ama, che non alza muri ma costruisce ponti.
Certo, ci sono stati scossoni, perché ogni autentica riforma porta con sé fatica e resistenze. Ma è stato davvero coraggioso. E il coraggio evangelico è una delle eredità più preziose che ci lascia”.
Come vivremo il Giubileo della Speranza che lui stesso ha voluto per il 2025?
“Sarà il suo testamento spirituale. Un segno vivo di una Chiesa che non si arrende, che continua a sperare, a credere nell’Amore che salva.
Lo Spirito Santo, come ha sempre fatto, susciterà pastori capaci di proseguire il cammino tracciato da Papa Francesco.
Noi, oggi, possiamo solo dire grazie: grazie per averci guidati, per averci amati, per averci ricordato cosa significa davvero essere Chiesa. E gli chiediamo di continuare a pregare per noi, e per chi ne raccoglierà il testimone”.