Al Teatro Pergolesi in prima esecuzione moderna I quadri parlanti di Spontini, partitura riscoperta di recente
JESI, 1 dicembre 2024 – Le prime battute che canta Don Bertoldo richiamano inequivocabilmente quelle di Figaro, all’inizio delle Nozze mozartiane, mentre misura con i passi le dimensioni della stanza. E nel secondo atto del ‘dramma giocoso’ I quadri parlanti (Palermo, 1800) di Gaspare Spontini, appena riemerso dall’oblio, i richiami a Mozart sono ancora più espliciti: quando Chiarella intona Zeffiretti e ruscelletti la memoria corre a Soave sia il vento di Così fan tutte, mentre – poco dopo – sembra di avvertire le risonanze di Donne mie, la fate a tanti. L’impiego di corni aggiuntivi per creare un effetto di eco, poi, rimanda ancora alle Nozze e alla perorazione conclusiva di Figaro quando mette in guardia gli uomini, invece il mandolino utilizzato sul finire dell’opera – concepito non tanto come omaggio a Napoli, dove è ambientata la vicenda – sembra occhieggiare a Deh, vieni alla finestra del Don Giovanni. Era lo spirito del tempo o il frutto dell’ammirazione che il compositore nutriva nei confronti del teatro mozartiano? Resta il dubbio, ma pensando a come Spontini, ormai all’apice della carriera, si adoperò per far pubblicare alla vedova Constanze la biografia del marito, e poi a diffonderla in traduzione francese, verrebbe naturale propendere per la prima ipotesi.
Inseriti nel cartellone del Teatro Pergolesi, dopo La Vestale e il concerto di Muti dello scorso marzo, per celebrare il duecentocinquantenario dalla nascita di Spontini (nativo di Majolati, a pochi chilometri da Jesi), I quadri parlanti sono stati proposti in prima esecuzione moderna nella revisione critica di Federico Agostinelli. La partitura, ritrovata nel 2016 in un castello delle Fiandre – il libretto era già stato recuperato negli anni novanta – offre una preziosa opportunità per arricchire il profilo di un musicista identificato quasi esclusivamente con la sua vena austera e solenne. Il soggetto non si discosta troppo dagli schemi dell’opera buffa napoletana (ne rimane una vistosa traccia nell’improbabile idioma del servitore Menicuccio), ma le sorprese arrivano soprattutto da una partitura che – pur ricorrendo ad autoimprestiti – è realizzata con estrema cura e tale da apparire persino sovradimensionata rispetto alla leggerezza un po’ convenzionale del libretto ideato da Gaetano Bongiardino. Una scrittura musicale, forse, più adatta all’opera seria, che però crea un effetto straniante di notevole modernità.
La vicenda si basa sulle schermaglie amorose di tre coppie, con il maturo padrone di casa che, a sua volta, ha delle mire sulla giovane governante, la quale – invece – ordisce una serie di macchinosi piani per abbindolarlo. È proprio l’intrigante Chiarella il perno dell’intera vicenda nonché il ruolo vocalmente più complesso. Grazie a mezzi sostanziosi e ben manovrati, il soprano Martina Tragni lo affronta con lodevole sicurezza, anche nelle occasionali colorature, e sfoderando grande disinvoltura scenica. Le altre due donne erano interpretate da Michela Antenucci, che ha disegnato una ritrosa Rosina destinata a esser schiacciata dall’altrui aggressività, e dall’incisiva Giada Borrelli, precisa e dal canto sempre fluido nei panni della cameriera Bettina. Sul versante maschile l’apprezzabile baritono Alfonso Michele Ciulla è stato il maturo e un po’ dabbene Don Bertoldo, mentre il tenore Giuseppe Di Giacinto ha impresso una certa nobiltà vocale al capitano Belfiore. Meno a fuoco l’altro tenore Francesco Tuppo, l’ambiguo e imbroglione fratello della protagonista. Più difficile il compito di Davide Chiodo, nominalmente baritono, che deve destreggiarsi con il personaggio di Menicuccio, all’apparenza servo sciocco, ma in realtà capace di tener testa a Chiarella e di sventare le sue macchinazioni.
Giulio Prandi, non nuovo alle riscoperte di opere rare o inedite, ha diretto il Time Machine Ensemble: un’orchestra specializzata nella valorizzazione di autori del novecento. Non solo ha ottenuto sonorità corrette e precise dai giovani strumentisti ma, soprattutto, ha impresso grande slancio e vivacità all’esecuzione, riuscendo a sottolineare – rendendole evidenti – le ascendenze mozartiane della partitura.
Sul piano visivo lo spettacolo è piacevolissimo. Il regista Gianni Marras si è avvalso della collaborazione di Alessandra Bianchettin per le scene e di Asya Fusani per i costumi: le due vincitrici della quarta edizione del concorso dedicato a Josef Svoboda, riservato agli iscritti al biennio di specializzazione delle accademie. La prima ha ideato una versatile scatola magica: un cubo che, aprendosi, configura diversi ambienti, dove campeggiano icone della pop art (forse la regia avrebbe potuto sfruttare maggiormente la presenza di quadri con le effigi dei personaggi, e che spiegano il titolo dell’opera). I costumi, poi, rivisitavano il settecento in modo assai spiritoso. Sono divertentissime le scarpe da ginnastica di un noto marchio indossate da tutti i personaggi e declinate nei più svariati colori.
Giulia Vannoni