È però legata alla figura del vescovo Giovanni Battista Castelli (1574-1583) l’applicazione in diocesi dei dettami del Concilio di Trento secondo un progetto organico di riforme. Bolognese di origine, aveva partecipato alla seconda e terza sessione del Concilio, con l’incarico di tenere i rapporti con le ambascerie inviate dai principi cristiani ed era stato membro di una commissione per dirimere questioni giuridiche e canoniche. Quando giunse a Rimini, portava con sé la ricca esperienza di pietà, dottrina e rigore disciplinare maturata nella diocesi di Bologna come collaboratore del vescovo Gabriele Paleotti (dal 1564 al 1566) e nella diocesi di Milano come vicario generale del vescovo Carlo Borromeo (dal 1566 al 1574). Mentre era vescovo di Rimini fu inviato come visitatore apostolico in varie diocesi della Toscana, a Parma, Piacenza e Crema e, infine, nunzio in Francia, dove morì.
Nei dieci anni del suo vescovato visitò a più riprese le parrocchie e le chiese della città e dei vicariati rurali, provvedendo ad un controllo dell’effettiva esecuzione di quanto ordinato per correggere le irregolarità, le consuetudini infondate, gli abusi che erano stati registrati.
Convocò tre sinodi, e pubblicò, al termine dei lavori gli statuti sinodali, che riguardavano la riforma dei costumi e della disciplina del clero. Il sinodo del 1577, per esempio, arriva a elencare i libri che ogni sacerdote doveva possedere: una copia del Nuovo e dell’Antico Testamento, il Catechismo di Pio V, una Summa morale (di Antonino da Firenze o di Tommaso d’Aquino) o, in alternativa, l’Armilla aurea di Bartolomeo Fumi (una raccolta di esami di casi di coscienza), l’officio divino, i decreti del concilio di Trento, i decreti del concilio provinciale di Ravenna, una collezione di omelie, le costituzioni dei sinodi diocesani, il calendario delle feste di precetto pubblicato ogni anno. Ma le costituzioni sinodali non si limitano solo a questo aspetto; toccano tutti quelli che possono essere considerati i punti cardine del progetto di formazione ed educazione alla fede emerso dai lavori del Concilio: l’annuncio della dottrina cristiana, la predicazione, la pratica autentica del culto, la cura pastorale, con particolare riguardo alla amministrazione dei sacramenti.
Nel 1579 presso la Croce Vecchia viene istituita la prima confraternita della Dottrina cristiana, per l’insegnamento ai bambini. Da quel momento l’istituzione si diffonde in tutta la città. Alla domenica e nelle altre festività nelle scuole di dottrina si insegnano le verità della fede e si recitano il Padre nostro, l’Ave Maria, il Credo, i dieci comandamenti in latino e in volgare. Si introduce anche la pratica della recita del rosario. Infatti, dopo la vittoria di Lepanto contro i Turchi (1571), anche nella nostra diocesi riceve un particolare impulso la devozione alla Madonna del rosario.
Gradualmente viene offerto ai fanciulli un libretto scritto, sussidio indispensabile per l’intero itinerario di formazione. Il catechismo diventa così lo strumento principale per la nuova evangelizzazione, per promuovere la riscoperta del battesimo e abilitare all’esercizio di una fede più personale, imperniata sulla partecipazione alla vita sacramentale della parrocchia. E poiché non ci si limita ad una apprendimento mnemonico, in molti casi l’insegnamento del catechismo è l’unica opportunità di alfabetizzazione. Riferimento privilegiato per le scuole di dottrina diventano i catechismi del cardinale Bellarmino, in particolare il compendio, pubblicato nel 1597 col titolo La dottrina cristiana breve.
L’attenzione del vescovo Castelli si rivolge anche alle scuole “laiche”, tenute a impartire anch’esse una educazione cristiana, esigendo la professione di fede da parte dei maestri.
Grande cura, come già era avvenuto nel sinodo del vescovo Parisani del 1572, viene riservata alla predica: si richiede ai parroci di garantirla tutte le domeniche, al termine della proclamazione del vangelo e si consigliano anche alcuni testi di lettura e di approfondimento, come la Vita di Cristo di Landolfo di Sassonia. I parroci che non sono in grado di una esposizione personale sono invitati a leggere brani del catechismo o qualche omelia di autori approvati.
Alle prediche dei parroci si affiancano quelle dei predicatori appartenenti ai grandi ordini religiosi – domenicani, francescani, cappuccini, gesuiti – che nei momenti “forti” dell’anno liturgico come l’Avvento e la Quaresima presentano un catechismo solenne rivolto all’intera comunità cittadina.
La preoccupazione di una pratica autentica del culto induce, inoltre, il Castelli a occuparsi anche di aspetti apparentemente più minuti come l’uso delle campane, delle reliquie e delle benedizioni, che spesso servivano come “medicina alternativa”, più vicine a forme di magia che a espressioni di fede; oltre che a pretendere che le chiese non venissero più utilizzate per fini diversi da quelli del culto.
Si impegnò con energia per l’obbligo di residenza dei parroci, con la sistematica sanzione delle inadempienze; obiettivo che era stato posto anche dal suo predecessore, ma che era stato perseguito con poca convinzione, dal momento che per raggiungerlo sarebbe stata necessaria la continua presenza del vescovo in diocesi.
Nel vasto programma di riforma contemplò anche il disciplinamento sociale, intervenendo sul modo di vestire dei fedeli, sull’interazione tra i sessi (come, ad esempio, le prassi del corteggiamento) sulla vita di preghiera delle famiglie. A questo fine scrisse un libretto di preghiere “da farsi ogni sera in ciascuna casa, con tutta la famiglia”. L’occasione venne data dall’ ennesima epidemia che colpì il Riminese nel 1576.
Infine affermò e rafforzò, sulla linea di Paleotti e di Borromeo, l’autorità del vescovo, attraverso la lotta ai privilegi fatti propri dai canonici della cattedrale, la riserva dei casi e il controllo della modalità di amministrazione dei sacramenti da parte dei parroci e dei confessori. Ancora seguendo il modello di Carlo Borromeo, istituì come suoi coadiutori i vicari foranei, col compito di segnalargli i disordini più gravi osservati nei costumi e nel comportamento di sacerdoti e fedeli e convocare mensilmente le congregazioni del clero della propria area per richiamare all’osservanza dei sinodi e dei decreti di visita. I vicari foranei, che generalmente affiancavano gli arcipreti plebani erano nella diocesi quello che i canonici rappresentavano per la città: una élite non solo di ceto, ma anche di cultura. Spesso erano laureati e possedevano biblioteche, per quei tempi, ricche.
Meno fortunato l’ intervento architettonico sulla cattedrale di Santa Colomba. Il suo intento era stato di adeguare l’edificio alle intuizioni pastorali del Concilio di Trento e, per permettere ai fedeli di vedere il sacerdote celebrante, aveva fatto abbattere il coro superiore ed eliminare la cripta. Questo gli attirò le accuse del clero che gli rinfacciava di avere agito “a capriccio”, peggiorando l’estetica della cattedrale. Nonostante le cure sue e dei suoi successori per dotarla di nuove cappelle e reliquie, infatti, da questo momento diventa sempre più sensibile la disaffezione della città verso una chiesa considerata “la più brutta e goffa della provincia”.
E, cosa forse più grave, l’intervento architettonico compromise la statica della cattedrale, tanto che verrà distrutta in occasione del gravissimo terremoto che colpirà la città nel 1672. (4 – continua)
Cinzia Montevecchi