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Gender, tra caos e utopia

“Mi trovavo in montagna a Siusi e mi è capitato di parlare con un contadino proprietario di una stalla e di un pollaio. Questi mi diceva: «Qui la prospettiva del gender non attacca. I miei figli vivono a contatto con gli animali e sanno benissimo che se le cose stessero diversamente da come stanno, nel giro di poco, noi la stalla e il pollaio non li avremmo più»”. Padre Giorgio Maria Carbone, giurista ed esperto di bioetica, utilizza il banale esempio del contadino altoatesino per mostrare come restare “aderenti alla realtà” per affrontare “La sfida del gender”, come il titolo dell’incontro promosso a Rimini dalla Fondazione Internazionale Giovanni Paolo II con l’adesione di diverse associazioni. “Una iniziativa – assicurano i promotori – finalizzata ad affermare un positivo – la bontà della creazione e della legge naturale – più che ad individuarne un nemico”.
Domenicano del Convento Patriarcale di Bologna, 46 anni, padre Carbone è direttore editoriale di Edizioni Studio Domenicano, collaboratore di diverse istituzioni e riviste scientifiche, e autore di oltre 50 pubblicazioni. “Non c’è alcun nemico da individuare – ribadisce il domenicano napoletano che si esprime in perfetto bolognese – perché l’obiettivo non è puntare il dito ma offrire una valutazione critica”.

Per molti osservatori, l’ideologia gender sarebbe solo il frutto di una oscurantista caccia alle streghe.
“La nuova accezione della categoria di «genere» era già in uso dagli anni Sessanta, negli Stati Uniti, sia all’interno della ricerca sociologica, sia in quella antropologica. Le teorie dello psicologo e sessuologo neozelandese John William Money (il cui scriteriato “intervento” ha avuto un peso enorme nella drammatica vicenda dei gemelli canadesi Reimer, ndr) risalgono addirittura al 1955. La cosiddetta “teoria del gender” – lo ricorda anche Judith Butler – prende piede tra gli anni Ottanta e Novanta. La bibliografia comprende documenti ufficiali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e delle Assemblee delle Nazioni Unite de Il Cairo e di Pechino.
In sintesi: il genere di appartenenza non è dato dalla natura ma lo si impara attraverso l’educazione, l’ambiente circostante, le relazioni.
Il genere, dunque, non è l’identità sessuale, non sarebbe più dato dalla natura una volta per tutte, ma è frutto di scelte, di cultura, di convenzioni”.

Quale significato può avere la negazione della rilevanza della propria corporeità?
“Genera caos. Ed è un’utopia, fa leva su una scelta assoluta ma l’uomo non è un angelo asessuato. Siamo o abbiamo un corpo? Siamo, ci identifichiamo con esso”.

L’ideologia gender propone una nuova antropologia?
“La prospettiva di genere propone un uomo che si modifica a proprio piacimento, senza apprezzare il dato creaturale. Si basa su una visione strumentale dell’uomo. Ciò che è venuto meno è lo sguardo contemplativo, cioè la capacità di accorgersi che siamo circondati da una bellezza che non abbiamo creato noi, che esiste anche senza il nostro intervento. La prospettiva di genere arriva a intaccare persino la psiche: io, maschio, posso «manipolare» la mia identità a piacimento, comportandomi da femmina e pensando come una femmina”.

Tante rivendicazioni attuali fanno leva su orientamenti e preferenze trasformati in diritti soggettivi.
“Ma nel diritto noi ci possiamo basare solo su dati oggettivi o oggettivabili, non su preferenze o pulsioni. Con il genere, come facciamo? Quale diritto si può basare sul «genere» e soprattutto sul fatto che esso è presentato come qualcosa di fluido, di mutevole? Tutte le Costituzioni del Dopoguerra si fondano su beni oggettivi. Il problema attuale è che si parla poco di diritti umani fondamentali, mentre si enfatizzano i diritti civili”.

Tommaso Cevoli