A Breslavia ripresa della Zauberflöte, il Singspiel di Mozart con i dialoghi riscritti dal giallista Krajewski
BRESLAVIA, 25-26 aprile 2025 – Si può fare. Non è poi un’operazione così irriverente riscrivere i dialoghi di un Singspiel, anche di quello più famoso: il capolavoro mozartiano Die Zauberflöte. Del resto Shikaneder, l’autore del libretto, stendendone il testo aveva ipotizzato di poterlo adattare a seconda delle circostanze.

Il regista polacco Michał Znaniecki (noto anche in Italia, dove ha firmato numerosi spettacoli di successo) ha fatto così riscrivere le parti dialogate a Marek Krajewski: non un drammaturgo qualsiasi, ma un autore di gialli che da tempo sono diventati un vero e proprio caso letterario in Polonia e non solo. Protagonista dei suoi libri più noti (tradotti in italiano da Einaudi) è un commissario di polizia, Eberhard Mock, che – negli anni trenta e quaranta – svolge le sue indagini a Breslavia, principale centro della Slesia e città al centro di tormentate vicissitudini storiche: annessa alla Germania, ritornò poi nuovamente nell’alveo polacco a seguito dell’intervento dell’Armata rossa. Nell’arco della sua attività investigativa, Mock ha dunque fatto i conti tanto con la Gestapo quanto con la Stasi, le famigerate polizie dei due diversi regimi.
Da questa riscrittura drammaturgica è nato Il flauto magico a Breslavia: spettacolo da non confondere, però, con i tanti allestimenti site specific ora di gran moda, ma vero e proprio ripensamento di un capolavoro che fa parte del lessico familiare di ogni appassionato d’opera, seppure decifrabile appieno solo da chi conosce la tormentata storia della città. Dopo il notevole successo ottenuto nella stagione 2023/’24 è stato ripreso ancora per tre serate al Teatro dell’Opera di Wrocław (questo è il nome polacco di Breslavia).
A fare da Virgilio nell’anomala rivisitazione è lo stesso Mock (ruolo affidato a una voce recitante, il bravissimo Jacek Jaskuła), un cultore di glottologia finito appunto a fare il commissario. Se il suo imprinting culturale giustifica l’acribia investigativa, l’essere massone aggiunge un’analogia in più con Mozart e Schikaneder: una trasversalità che ha consentito a Mock, peraltro, di restare in sella durante il periodo nazista e comunista. Personaggio affascinante e contraddittorio, pieno di umane debolezze compreso l’amore per la bottiglia, Mock si propone di scoprire attraverso le sue indagini i misteri – e nel Flauto magico sono davvero tanti – celati dietro ai personaggi, anche quelli in apparenza positivi (nello spettacolo spesso non conservano il nome mozartiano, ma talvolta portano quello dei protagonisti dei romanzi di Krajewski): d’altronde nessuno meglio di un poliziotto sa come dietro a ciascuno si nasconda un lato oscuro.
Dunque Tamino diventa un altro investigatore, venuto da fuori; la Regina della Notte una tenutaria di una casa di tolleranza; e persino il sacerdote Sarastro è un uomo dalla doppia vita: ora giustiziere, ora ricattatore. Più problematica la nuova identità assegnata a Papageno: non più l’uccellatore, con tutto il carico di significati simbolici legati alla sua attività, ma un cacciatore di sogni che espropria ai frequentatori di locali equivoci. La musica di Mozart, però, non ha subito alcuna modifica, sebbene la scelta di affidare il ruolo dei tre genietti non a voci bianche, ma a dei controtenori (qui nei panni di giovani teppisti), possa suscitare qualche perplessità.
La regia di Znaniecki, grazie alle scene ruotanti di Luigi Scoglio e ai costumi polistilistici di Magdalena Dąbrowska, punta su tinte scure e notturne che adombrano suggestioni esoteriche immerse in vaghe atmosfere naziste. Il circuito tra la vicenda originaria e gli innesti recitati con Mock, nonché le diverse prospettive e identità che i principali ruoli assumono rispetto al canovaccio di Schikaneder, si articola con buon ritmo teatrale e solo occasionali forzature. Ed è da sottolineare, quando Tamino affronta la seconda prova, l’omaggio che il regista rende a Grotowski, con una citazione del suo Principe costante: il leggendario spettacolo tratto da Calderón de la Barca, nato sessant’anni fa esatti proprio a Wrocław e che ha cambiato la storia del teatro.
Le due diverse compagnie di canto si muovono in un ambiente torbido e fumoso, dove sono all’ordine del giorno alcol, droga e prostituzione (non a caso lo spettacolo è «vietato ai minori»). Decisamente migliore il secondo cast, a cominciare dal tenore Adrian Domarecki, un Tamino sempre sicuro, proseguendo con il soprano Agnieszks Adamczak, un’intensa Pamina. Nonostante la leggerezza della voce se l’è cavata onorevolmente Teresa Marut nei panni della Regina della Notte, mentre Tomasz Rudniki, baritono piuttosto chiaro, è stato un Papageno talvolta un po’ spaesato. Sebastian Rutkowski era in grado di scendere alle note più basse di Sarastro, anche se nel primo cast Grzegorz Szostak si era maggiormente imposto per l’eleganza della linea di canto, nonostante note gravi un po’ sorde. Nella prima compagnia merita poi di essere ricordato l’ottimo tenore Edward Kulkzyk, che ha caratterizzato un efficacissimo Monostato.
Massimiliano Caldi, che non aveva diretto le recite della scorsa stagione, ha saputo inserirsi con duttilità ed eclettismo in un contesto così poco convenzionale, assecondando dal podio quest’atipica teatralità con intuito musicale ed efficace pragmatismo nel sostenere i cantanti. Nello stesso tempo è riuscito a ottenere sonorità sempre fluide e scorrevoli dall’orchestra dell’Opera di Wrocław, nel rispetto delle esigenze stilistiche e di un fraseggio autenticamente mozartiani.
Uno spettacolo, forse, dove non sempre ogni tassello si colloca al posto giusto, tanto più per un pubblico cui possono sfuggire dettagli della storia di Breslavia e dei romanzi di Krajewski: del resto, pure nel libretto di Shikaneder non sempre quadra tutto. Poi, però, a garantirne la riuscita c’è comunque la meravigliosa musica di Mozart.
Giulia Vannoni