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Fellinette, o delle cose semplici

Il delicatissimo “corto” La Fellinette, che Francesca Fabbri Fellini ha costruito per ricordare lo zio nel suo centenario, trae ispirazione dal disegno spiritoso che lui le fece, ritraendola in mantellina blu pavone, banda carabinieri e stivaletti rossi, a passo di marcia. Era il 20 gennaio 1971, il suo cinquantunesimo compleanno, e il delizioso abbigliamento era un dono suo e di Giulietta.

Da quell’istante, i ricordi animano una bambina dalla treccia rosso Tiziano e il naso all’insù, che scende sulla spiaggia di Rimini. C’è il barboncino bianco dagli occhi come chicchi di caffè, che la segue dovunque come l’Alfie di oggi, tra i gridi dei gabbiani. La bambina corre con il palloncino rosso sullo sfondo beige della sabbia che pare infinita, contro il mare grigioverdazzurro. Il palloncino le sfugge, vola verso il mare. Lei lo insegue fino all’ultimo saltello sulla palata di legno che abbiamo visto nei Vitelloni. È irraggiungibile, come il dono che è Fellini.

Tutto è trasparente, reale, impalpabile, vicino e lontano, come nelle passeggiate invernali con lo zio meraviglioso, per il quale il mare è stato presenza nei film, il simbolo dell’insondabile profondità dell’anima. I sacchi di plastica con cui lo rifaceva, quel loro “falso”, ne diventavano l’immagine più vera. Il disegno brillante e leggero lo cita, tanto meno cupo del selvaggio dell’inconscio e dell’ignoto, che il mare rappresenta in lui: si stempera nelle nuances con cui i giovani disegnatori di Studio Ibrido capitanati da Linda Kelvink lo estraggono abilmente dal disegno e dai film, per farne l’apertura di un sogno e del desiderio che il sogno rivela. Essi appartengono a una persona che scruta in se stessa cosa può offrire del proprio ricordo da quella bambina che era – al grandioso zio “Chicco” che l’affascinava con le cose più semplici e familiari: non le mostrava quanto riversava sul mondo, di supremamente fantasmagorico. Di lì a poco le avrebbe fatto vedere il set di Amarcord a Cinecittà. Ma sostanzialmente era legato soltanto da quella appartenenza di dna familiare, pur essendo colui che, come Kafka, non esisteva che per essere lo “straniero”, consacrato alla natura “altra” dell’Immaginazione.

La Francesca di oggi ha cercato il segreto di quel fascino indescrivibile, cercando di mettere insieme il familiare, – per come lo ha vissuto da bambina – con l’universale, l’immensa potenza visionaria che ha conosciuto soltanto dopo. Lo ha desiderato nel profondo, sebbene lei dica che ciò è successo per fare un degno tributo allo zio nel suo centenario. Ha guardato in se stessa, finché un sogno, tra l’11 e il 12 maggio 2019, le è venuto in soccorso: lì ha visto prendere corpo questo film.

Io credo che la realizzazione del sogno non sia soltanto l’omaggio a Fellini così ben riuscito, con i professionisti di maggior valore e più adatti al progetto, sostenuto da giovani riminesi fra cui i produttori Elisa Giardini e Davide Montecchi, il montatore Simone Felici, e fatto volare dalla musica di Andrea Guerra, che per di più, è anche il figlio di Tonino: il regalo ricambiato allo zio secondo la regola dell’arte, dove nulla è lasciato al caso, e anche le foto di scena sono di un maestro come Graziano Villa. Credo che questo Fellinette sia la risposta data con sincerità alla domanda cruciale che investe le ragioni dell’artista: perché qualcuno si stacca dalla vita di tutti gli altri, e misteriosamente, diventa un artista. Tanto più se questo essere fuori dalla norma, appartiene al proprio nucleo familiare, dove si possono elencare delle gran brave e talvolta straordinarie persone, come la nonna Franzchina, la “signora degli animali” di Gambettola, immortalata nel sogno di Guido in 8 1/2, o la madre Ida Barbiani in fuga d’amore da Roma con il suo Urbano, del quale ancora oggi si ricordano le qualità di agente di commercio e simpaticissimo raccontatore. Ma nessuno è il “genio” che balza dal terreno degli avi.

Nel sogno, e nella sua riproduzione di disegno e film, Francesca F. Fellini osserva, e ci fa osservare, il riformarsi del principio dello stupore. A quel punto non solo si sdoppia, ma osserva, si osserva, si fa osservare: perciò ecco la meraviglia per questo miracolo che accade proprio in quel familiare vicinissimo a noi, e la meraviglia che ha generato e profuso. Ecco il fondersi dei due stupori. Il carattere della sorpresa è al cuore di tutto. Ma c’è di più. Il miracolo avviene, ma è ottenuto quasi con niente.

Mezzi speciali zero, per il più alto grado della meraviglia. Con quanto è più “semplice”, povero, il nonnulla al quale i veri bambini restano attaccati, se sanno creare, da adulti, l’opus, come ha fatto Fellini, sempre sdegnoso degli effetti speciali.

Ora la bambina si siede proprio sulla seggiola del regista, c’è il megafono, e si addormenta.

Voce remota: «Motore!

Azione!». Gli occhi si riaprono.

Forse lei è Federico bambino che guarda lo spettacolo dietro due lucidi sipari arancio e rosso. Oh di stupore, a ogni comparsa dal buio nella scena dove il megafono dell’autore segna la sua presenza.

Ed è un magistrale Ivano Marescotti-Mandrake costume originale di Danilo Donati e Sartoria Farani per Intervista – a tirare su il panno rosso che copre il circo miniatura, ammiccando e sbattendo gli occhi, come un fantastico Mangiafuoco, e a dare il via agli eventi, con un colpo di bacchetta: la danza di una Gelsomina dove Milena Vukotic è perfetta perché è se stessa, anche spazzando la neve rovesciata da Gabriele Pagliarani (noto ai riminesi come il bagnino del 26); l’incanto delle bolle di Sergio Bustric, che ha ridestato Pinocchio; il funambolo Federico Bassi, emblema per l’arte della leggerezza e dell’abisso; il lenzuolo – come in Intervista con le silhouettes di Marcello e Anita giovani nella Dolce vita – a ospitare le ombre cangianti di Carlo Truzzi. I personaggi in carne e ossa, con i loro oggetti simbolici nella scenografia di Sergio Metalli, smaglianti nella viva fotografia di Blasco Giurato, ora lasciano il posto al risveglio che avviene nel cartone.

Un clown riconsegna il palloncino rosso, si profila l’evocatrice fila dei clown, con la nostalgia di quel bambino, che nel finale di 8 1/2 guida una rinascita corale.

La malinconia è dolce: l’icona scura di Fellini con la sciarpa rossa prende per mano Fellinette, i due si allontanano sulla riva del mare. Non si può non pensare all’uscita di scena troppo precoce di Fellini, e questo commuove, e mi fa ricordare, anche se l’associazione è lontana, il film d’animazione di Tonino Guerra, Il leone dalla barba bianca. Anche di Guerra ricorre il centenario, anche Guerra è di questa Romagna, dalla quale è nata questa concentratissima quête, il suo dono, la sua fusione.

Rosita Copioli

Il testo originale è apparso su Avvenire, il . L’articolo è stato poi rivisto e rivistato dall’autore per ilPonte.