Home Vita della chiesa Eucaristia, bene comune per la Città

Eucaristia, bene comune per la Città

Davanti all’eucaristia proviamo immancabilmente stupore e tremore. Nel grande sacramento la realtà divina si affaccia al nostro ristretto orizzonte come “mistero tremendo e affascinante”: tremendo, per la sua incontenibile potenza; affascinante, per la sua sconfinata misericordia. Per fare spazio alla nostra libertà, Dio si mostra talmente immenso e illimitato da autolimitarsi in un pezzetto di pane e in un sorso di vino, e si rivela talmente misericordioso e benevolo da offrirsi, disarmato, alla nostra fame e sete di infinito.
Da duemila anni noi cristiani ci ostiniamo a credere che l’eucaristia sia tutto per noi: la riteniamo come la fonte e la foce, la base e il vertice, il punto di partenza e di pienezza del vissuto cristiano. La coscienza credente, quale si specchia nelle parole del vescovo di Roma, il santo padre Benedetto XVI, riconosce e professa che “l’unione con Cristo che si realizza nel sacramento ci abilita anche a una novità nei rapporti sociali” (Sacramentum caritatis, n. 89). È proprio sulla originalità sociale dell’eucaristia che ora vorrei brevemente sostare con voi, fratelli e sorelle nella comune fede cattolica, e con voi, distinte Autorità, e donne e uomini tutti, di buona volontà.

1. L’eucaristia inaugura
la cultura del dono

L’eucaristia non è una “simulata” dell’ultima cena né un’aggiunta o una riproduzione fotocopiata dell’unico irripetibile sacrificio di Cristo, offerto “una volta per tutte” (Ebr 7,27). L’eucaristia non è una sacra rappresentazione: è piuttosto una efficace ed effettiva ri-presentazione della Pasqua, non certo nel senso che l’evento della morte e della risurrezione di Cristo venga continuamente ripetuto o ”mandato in onda”, ma nel senso che la Pasqua del Signore viene puntualmente attualizzata, “rivissuta” e resa realmente presente nel sacramento. Il rilievo di questa verità è duplice, poiché la ricaduta della celebrazione eucaristica si verifica sia a livello personale che sul piano storico e sociale. Il dinamismo pasquale che si attiva nell’eucaristia è tale che chi vi partecipa, mentre riceve il corpo e il sangue del Signore, viene chiamato ed è reso capace di lasciarsi espropriare di sé per appropriarsi della più vera e propria identità, quella di essere un cristiano-cristoforo, un portatore di Cristo, anzi un portato da Cristo. È la logica evangelica: per ritrovarsi bisogna donarsi, per salvarsi bisogna perdersi. La legge suprema dell’esistenza è il dono di se stessi. Nell’eucaristia Cristo mi tira fuori di me, mi attira verso di sé, di modo che “non sono più io che vivo, ma è lui che vive in me”. Come il cuore umano assume il sangue dalle vene, lo ricambia nei polmoni, e lo restituisce di nuovo ossigenato alle arterie, così il cuore eucaristico di Cristo assume la mia umanità, i miei pensieri, i miei affetti, le mie scelte, insomma tutto il mio vissuto, e me lo riconsegna trasformato nella struttura eucaristica di una nuova umanità. Poiché nel pane consacrato è scolpito il volto inconfondibile di Cristo, e vi si specchia il volto specifico del cristiano, nella sua misura più alta, quella della santità.

2. L’originalità sociale
dell’eucaristia

Ma quanto si verifica in uno, si verifica in tutti e in ognuno dei partecipanti al sacro rito: “nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore come tutti gli altri comunicanti” (Deus caritas est, n. 14). “Poiché partecipiamo allo stesso pane, formiamo lo stesso corpo”, fusi, senza essere confusi, in una sola esistenza. Ecco la valenza sociale dell’eucaristia. La Pasqua di Gesù ha depositato nel terreno accidentato della storia il seme di una forza trasformante che modifica la realtà intera, immettendovi un capitale smisurato di energia divina. La celebrazione eucaristica fa passare la Pasqua di Gesù nella nostra esistenza, e così siamo contagiati dal suo amore, diventiamo contemporanei alla sua “ora”, veniamo coinvolti nella dinamica oblativa della sua donazione. Per esprimere la potenza efficace dell‘eucaristia, papa Benedetto ha utilizzato più volte l’immagine della “fissione nucleare”. “La conversione sostanziale del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo pone dentro la creazione il principio di un cambiamento radicale, come una sorta di ‘fissione nucleare’ (…) portata nel più intimo dell’essere, un cambiamento destinato a suscitare un processo di trasformazione della realtà, il cui termine ultimo sarà la trasfigurazione del mondo intero, fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti” (Deus caritas est, n. 13). In questa prospettiva il comandamento dell’amore non risulta un dovere imposto o un obbligo derivato, ma la spontanea, interiore fioritura dell’evento pasquale che si rinnova nell’eucaristia. L’amore ci è comandato perché prima ci è donato.
La configurazione architettonica della nostra città, con la cattedrale e il palazzo comunale al centro, e con le varie chiese incastonate nel tessuto urbano, restituisce plasticamente una immagine della realtà sociale, centrata attorno alla dimensione religiosa, còlta in stretta connessione con quella civile. Questa icona emblematica trasmette due messaggi: il primo, che i cristiani non sognano l’egemonia sulla città, ma non possono rinunciare ad esserne l’anima e il fermento; secondo, che nel dialogo rispettoso e positivo tra la comunità ecclesiale e quella civile si tutela una sana e serena “laicità”. Laicità infatti non significa indifferenza dello Stato di fronte al fatto religioso, ma garanzia da parte dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione (cfr Corte Costituzionale, sentenza n. 203/1989). Pertanto laicità ed eucaristia non si rapportano in proporzione inversa, per cui a fronte di un di più di fede ci sarebbe un di meno di laicità. Infatti la cultura eucaristica genera un nuovo modo di pensare e di vivere, percepibile anche al di là dei confini espressamente ecclesiali. L’eucaristia trasmette un segnale forte di un umanesimo integrale e plenario, rappresentabile nella figura di una ellisse a due fuochi, la persona e la famiglia.
La cultura eucaristica richiede a noi cristiani di essere non i cortigiani dei potenti, ma i servitori dei poveri; ricorda ai responsabili della cosa pubblica che occorre dare gambe a quel piano strategico con cui si è voluto disegnare il futuro della città nel segno della solidarietà e della fraternità, e all’insegna di una pacifica e civile convivenza; esige che il baricentro della nuova Rimini sia il bene comune e non il profitto dei pochi o il privilegio dei pochissimi a spese dei molti, dei moltissimi. Nessuno ci può strappare dal cuore la tenace persuasione del potenziale umanizzante di questo vangelo. E nessuno abbia paura: è solo per amore della città e di quanti non credono o credono diversamente, che noi dobbiamo e vogliamo fare la nostra parte perché nella nostra città si instauri la civiltà dell’amore, la cultura dell’accoglienza, della condivisione, della fraternità.
In particolare vorrei richiamare il valore civile e umano, oltre che ecclesiale, della domenica, giorno libero, festivo, speciale, che va preservato dall’obbligo invadente del lavoro, del vendere e del comprare. Unisco pertanto la mia voce a quella di Benedetto XVI, di altri vescovi e del mondo del lavoro per incoraggiare cattolici e uomini di buona volontà a dire no alla liberalizzazione selvaggia degli orari dei negozi nei giorni di domenica. Noi riteniamo che ”commercializzare” la domenica sia offendere la dignità dell’uomo, della famiglia, delle lavoratrici e dei lavoratori. Vorrei essere chiaro: la nostra denuncia contro la profanazione della domenica è motivata non solo dal fatto che una domenica così violentata non è cristiana, ma anzitutto perché non è umana, perché è idolatra, immorale e ingiusta.

+ Francesco Lambiasi