Nella seconda tranche del festival riminese in due serate due modi per confrontarsi con il passato
RIMINI, 15-28 settembre 2025 – Semplicemente perfetto il concerto dedicato a Mendelssohn: una serata fra le più memorabili delle ultime edizioni della Sagra Malatestiana. Sul podio Sir John Eliot Gardiner alla guida della Constellation Choir & Orchestra, un magnifico ensemble strumentale e corale fondato dal grande pioniere delle esecuzioni filologiche. L’ottantaduenne direttore ha accostato, nella serata al Teatro Galli, pagine ispirate a due fra i massimi letterati di tutti i tempi, Shakespeare e Goethe. Le celeberrime musiche di scena legate alla commedia Sogno di una notte di mezza estate ‘per soli, coro femminile e orchestra’, del 1843, erano infatti abbinate alla cantata La prima notte di Valpurga ‘per soli, coro e orchestra’, di dieci anni precedente. Nel primo caso, l’esecuzione ha lasciato sbalorditi per la bravura di cantanti-attori capaci di passare dalla recitazione al canto solistico, per poi rientrare con la massima naturalezza nei ranghi del coro. Interpreti oltremodo duttili, che si muovono in palcoscenico come attori consumati (deliziosa la ragazza che interpretava il folletto Puck) e sempre in grado di stabilire una perfetta simbiosi con l’orchestra: qualcosa che va ben oltre la mera sincronia e ha permesso di esaltare le incantevoli atmosfere shakespeariane, valorizzandone al tempo stesso gli aspetti più divertenti.

Altro aplomb quello richiesto ai solisti della Notte di Valpurga, che da un lato devono esprimere tutte le tempeste interiori di Goethe e, dall’altro, confrontarsi con la lingua tedesca, dove è richiesta un altro tipo di fonazione. Magnifici anche questi interpreti, benché meriti una menzione particolare il basso Alex Ashworth (nel duplice intervento del Druido e del Sacerdote), oggi fra i più apprezzati specialisti di Bach ed Händel per l’esemplare tecnica di canto e la solidità di un’emissione immune da qualsiasi forzatura.
Tuttavia, il solo contributo dei cantanti non sarebbe bastato a valorizzare queste musiche. È stato risolutivo anche l’apporto dell’orchestra, dove gli strumenti a fiato erano scelti con criteri filologici: mai genericamente antichi, bensì legati all’effettiva epoca delle composizioni. In questi casi, il rischio – sempre in agguato – è che corni e trombe naturali, flicorno, oboe in legno e flauto in ebano abbiano cedimenti d’intonazione: con Gardiner e i suoi strumentisti non è mai accaduto (basterebbe pensare all’esemplare perfezione della Wedding March nel Sogno). Così, l’intera macchina sonora ha mantenuto un’espressività in grado di conseguire quella sintesi ideale tra classicismo e romanticismo che, in ultima analisi, racchiude il nucleo poetico più forte di Mendelssohn. Una quadratura del cerchio spesso non raggiunta neppure da quei blasonatissimi direttori che, oggi come ieri, si accostano al musicista tedesco soprattutto sotto il segno di una raffinatissima levigatezza.
Il concerto di Cecilia Bartoli era a sua volta incentrato sulla musica antica, almeno nell’ottica dell’ensemble che l’accompagnava (Les Musiciens du Prince-Monaco e il loro direttore Gianluca Capuano). E per assistere al megashow di questa primadonna, acclamata ovunque, sono accorsi i suoi fan da tutta Italia. Il recital, o forse sarebbe meglio definirlo spettacolo, è stato un vero e proprio excursus musicale a tutto campo, tanto più che lo spettro dei brani è stato arricchito anche attraverso i bis: una meritoria opera di divulgazione, che partendo dal barocco è arrivata all’epoca moderna. Il concerto ha infatti preso le mosse da Monteverdi con il madrigale Sì dolce è il tormento, passando per Mie fide schiere e A facile vittoria del meno noto Agostino Steffani, prima di approdare alla splendida aria Lascia la spina, cogli la rosa (dal Trionfo del tempo e del disinganno di Händel) e a Vivaldi. Arie patetiche e arie di furore si sono alternate fino a raggiungere Mozart con la Clemenza di Tito: quel Parto, parto concepita per castrato e oggi tornata appannaggio dei controtenori, ma che vanta una lunga tradizione d’interpretazioni femminili (archetipica quella di Teresa Berganza) in cui la Bartoli va appunto a collocarsi. È toccato poi al Rossini serio con la meravigliosa Canzone del salice dell’Otello e, cambiando decisamente atmosfera, A una voce poco fa dal Barbiere. Se fino a questo punto era tutto previsto in locandina, vanno aggiunti i numerosi bis: dalla Carmen alle Nozze di Figaro (l’aria di Cherubino Voi che sapete) fino a canzoni popolari del secolo scorso come Non ti scordar di me, mentre il pubblico, entusiasta, cercava di trattenerla ancora.
Ogni brano vocale era preceduto da uno strumentale e qualche perplessità in più riguarda, appunto, la prova dell’orchestra, caratterizzata da una concezione non sempre condivisibile sul piano filologico, soprattutto per il protobarocco. Prime parti soliste comunque notevolissime, dalla tromba naturale al flauto (dolce e traversiere) e al mandolino: lo si percepiva bene, perché proprio con loro ha duettato la Bartoli, sempre perfetta quanto ad appiombo ritmico e intonazione. Se comunque l’Orfeo monteverdiano eseguito da un’orchestra così imponente è oggi in controtendenza, con Händel e Vivaldi – ossia un secolo dopo – l’arbitrarietà non sembrava più tale; e, procedendo poi verso anni più recenti, diventava anzi sempre più apprezzabile, come nella sinfonia del Barbiere rossiniano, mentre nel caso della sua Cenerentola appariva addirittura ideale.
Giulia Vannoni





