Al Teatro Grande di Brescia Don Quichotte di Massenet in un bell’allestimento di Kristian Frédric
BRESCIA, 7 novembre 2025 – Don Chisciotte è uno dei miti letterari più affascinanti. Capace di attraversare i secoli. Così, nel tempo, ha mantenuto intatta la sua attrattiva: anzi, come nel caso della trasposizione musicale di Jules Massenet, si è arricchito di ulteriori sfumature poetiche. Il compositore francese aveva subito nel profondo la fascinazione per questo eroe sognatore, testimone di un’epoca ormai al tramonto, tanto da realizzare, sulla soglia dei settant’anni, una ‘comédie heroïque in cinque atti’ dal titolo Don Quichotte. Utilizzò il libretto di Henri Caïn, tratto però non da Cervantes ma dal testo teatrale di Jacques le Lorrain, Le chevalier de la longue figure (seppure a sua volta ispirato al romanzo dello scrittore spagnolo), puntando più sulle corde intimo-emotive che sugli aspetti eroico-visionari. Il protagonista non possiede dunque le caratteristiche epiche attribuitegli da Cervantes: appare soprattutto una creatura che vive in un mondo parallelo, un perdente – qui è angariato da una Dulcinea assai più dispotica che nel romanzo – simbolo di una condizione umana comune a tanti.

Per Don Quichotte può dunque funzionare benissimo una messinscena rapportata al presente. Il regista che ha allestito lo spettacolo per il circuito teatrale di Operalombardia, Kristian Frédric (con le scene di Marilène Bastien e i costumi di Margherita Platé) l’ha ricondotto ai nostri giorni attraverso una forte idea ermeneutica, garantendo grazia narrativa e rispetto della musica.
Nello spettacolo andato in scena al Teatro Grande di Brescia, il Cavaliere errante si trova in una casa di riposo: arriva su una sedia a rotelle, al posto del cavallo Ronzinante, e brandisce il bastone su cui si appoggia per camminare in luogo della lancia. Nella struttura per anziani instaura un’affettuosa complicità con l’infermiere – di nome Sancho, ovviamente – disposto a condividerne il suo desiderio d’evasione; mentre due dei quattro spasimanti di Dulcinea, che la partitura concepisce come ruoli en travesti, assumono qui le sembianze femminili di due infermiere. Lo scontro con i mulini a vento si trasforma invece in un assalto contro le pale appese al soffitto, utilizzate per ventilare le stanze.
A introdurre i cinque atti provvede la voce registrata di una psicologa. Racconta il proprio approccio con i pazienti che si muovono lungo quella sottile linea di confine dove le aspirazioni più elevate sfociano talvolta nella follia: una traccia utile al pubblico come chiave interpretativa dello spettacolo, anche se talvolta corre il rischio di essere un po’ debordante. Il sipario, poi, si alza su un Don Chisciotte bambino, con tanto di orsacchiotto che diventa sempre più grande: è intento a leggere un grande libro che gli permette di addentrarsi in un sogno e, forse, fare i conti con un qualche trauma infantile.
Se l’accurato lavoro di regia sui singoli interpreti ha contribuito a rendere tutto perfettamente leggibile, da parte loro i cantanti hanno mostrato una forte compenetrazione musicale e interpretativa. Nel ruolo dell’indomito Hidalgo, nominalmente concepito per basso (alla prima rappresentazione, nel 1910 a Montecarlo, era stato il leggendario Šaljapin), Nicola Ulivieri è stato un convincente protagonista: ironico, appassionato e particolarmente intenso in un finale dove, ormai morente, lascia come preziosa eredità di un’esistenza condotta all’insegna dell’utopia l’«isola dei sogni» a Sancho. A interpretare quest’ultimo era il baritono Giorgio Cauduro, che grazie all’omogenea compattezza del registro medio-grave ha saputo imprimere sfumature e grande espressività alla figura del fedele scudiero. Chiara Tirotta, nei panni della fatale Dulcinea – ma qui trasformata in una dottoressa della struttura – forse manca di autentica sensualità mezzosopranile. Canta bene, tuttavia, ed è sempre convincente fin dalla sua aria iniziale Quand la femme a vingt ans. Gli altri quattro ruoli comprimariali erano assolti correttamente dai due tenori Raffaele Feo e Roberto Covatta, nonché dai soprani Marta Leung ed Erica Zulikha Benato.
Alla guida dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali e del Coro Operalombardia (preparato da Diego Maccagnola), Jacopo Brusa ha impresso un ritmo scorrevole alla musica: meno incline alla dimensione sognante dell’opera, ne ha privilegiato soprattutto gli snodi drammatici e la tenuta del palcoscenico. Si può semmai discutere se sia stato un bene eseguire il preludio al quinto atto (caratterizzato da uno splendido assolo di violoncello) anche all’inizio dell’opera, come del resto aveva già fatto Prêtre. Ma è un peccato veniale per uno spettacolo dove realtà e immaginazione sconfinano, sempre, l’una nell’altra.
Giulia Vannoni





