“Nessuno si è mai accorto di niente, né i miei genitori né tantomeno le maestre delle elementari e i professori successivamente, ma ricordo ancora benissimo la lentezza che impiegavo nel leggere anche solo la consegna di un compito qualsiasiediquantotempo avessi bisogno per studiare, rispetto alle mie coetanee. La scuola ha sempre esplicitato che fossi particolarmente lenta nell’eseguire una consegna, nulla di più nulla di meno, eppure io percepivo inconsciamente che qualcosa non andava…”.
Si chiama dislessia: una presenza quasi invisibile che si riconosce da alcuni “sintomi” che sono presenti nei bambini e che si manifestano soprattutto all’inizio dell’età scolare, in particolare dalla seconda elementare, a 7-8 anni. Si tratta di un disturbo dell’apprendimento caratterizzato da difficoltà nella lettura e nell’ortografia, nonostante una capacità intellettiva normale e un’istruzione adeguata. Queste difficoltà derivano da differenze nel modo in cui il cervello elabora i simboli scritti. Non è un riflesso della mancanza di intelligenza o impegno, ma una variazione nel funzionamento cerebrale che influisce sulla capacità di decodificare e interpretare le parole. Secondo il National Institute of Child Health and Human Development (NICHD), la dislessia è una condizione neurologica ereditaria che influisce su circa il 5-10% della popolazione mondiale.
I ricercatori ritengono che essa sia legata a differenze nel funzionamento delle aree del cervello responsabili della lettura e del linguaggio.
Ma in che modo si manifesta tale disturbo? Qual è il ruolo delle istituzioni scolastiche di fronte a ciò? E quello delle famiglie?
Sarà Adriana ad analizzare la questione, 29enne riminese dislessica diagnosticata, che solo in quarta liceo scoprì questa sua caratteristica: “ Alcuni portatori di dislessia sono più evidenti (palesi agli occhi degli specialisti) mentre altri meno; ecco, io penso proprio di appartenere al secondo caso. Non ho mai avuto particolari problemi a leggere anche se ‘sillabavo’ parecchio per mettere insieme le lettere che componevano una parola; nella mia testa quei simbolini grafici si confondevano, non li vedevo bene, da piccolina mi vergognavo, avevo paura che se avessi letto male ad alta voce davanti ai miei compagni di classe si sarebbero messi a ridere, rileggevo a casa non so quante volte una frase, in modo da leggerla bene ad alta voce in classe. Forse è per quello che nessun maestro si è mai accorto di nulla”.
Gli anni passavano “ma io continuavo a leggere (nella mia testa) le scritte sillabando, e nonostante l’esercizio e l’esperienza degli anni scolastici, alcune consonanti continuavano a sembrarmi uguali; ricordo ancora che alle medie e alle superiori non riuscivo a portare a termine molte verifiche perché per interpretare una consegna avevo bisogno di leggerla e rileggerla, ancora e ancora, timorosa che avessi invertito qualche lettera nella parte della comprensione e soprattutto temevo di scrivere qualcosa di ortograficamente scorretto; inutile dire che il tempo a disposizione per svolgere un compito non mi bastava mai”.
Poi arrivò quel giorno, quello che Adriana definisce il giorno dell’accettazione: “ Un pomeriggio andai a studiare da quello che allora era il mio ragazzo; oltre a noi in casa c’era anche sua madre che di mestiere faceva la psicologa, fu lei la prima a mettermi la pulce nell’orecchio, spiegandomi cosa fosse la dislessia e come mi sarei dovuta comportare di fronte a ciò. In quel momento è come se avessi potuto unire con una matita tutta una serie di puntini che erano rimasti lì, fermi e immobili per anni: non ero ‘stupida’ come tante volte avevo pensato tra me e me, ero semplicemente dislessica.
Dopo quel giorno ne parlai subito con i miei genitori, esprimendo il desiderio di voler andare a fare una visita da uno specialista in modo da poter capire bene quale fosse la situazione. Non penso che i miei genitori avessero compreso appieno la questione, forse hanno pensato che fossi solo stressata dal troppo studio o insicura di me stessa; mia madre si preoccupò al punto che l’indomani andò a mia insaputa a parlare con gli insegnanti del liceo per chiedere se avessi problemi di rendimento scolastico, la risposta fu la medesima degli altri colloqui: una ragazza particolarmente lenta e molto timida ed emotiva. Ma avevo già preso la mia decisione”.
Da lì iniziò un viaggio interiore che arrivò al “verdetto” finale, una sorta di liberazione che permise ad Adriana di ottenere tutta una serie di strumenti compensativi per le persone portatrici di dislessia: “
Ad oggi, a distanza di dieci anni, ringrazio ancora la mamma di quel ragazzo, se ho scoperto la mia dislessia è stato grazie a lei, forse è merito suo se dopo il liceo ho deciso di iscrivermi a Psicologia all’Università. Quel giorno mi sono tolta un enorme fardello che portavo costantemente sul petto, con cui ho convissuto per anni e che oggi sono in grado di gestire in modo autonomo”.
L’importanza del mondo educativo
Per una corretta gestione, anche umana, delle persone con dislessia è fondamentale il ruolo degli educatori, dai genitori agli insegnanti. Come evidenzia Loretta Melucci, ex referente dislessia dell’associazione AID ed ex maestra della Scuola primaria Pascucci di Santarcangelo.
“ Di fronte a questa notizia negli adulti c’è sempre molto allarmismo, ma non è una malattia, è un qualcosa di risolvibile, prima si individua la dislessia prima si possono dare al bambino gli strumenti compensativi per poter convivere con essa. È importante che i maestri delle elementari siano sempre vigili su questo fronte, al primo segnale che notano devono subito avvisare la famiglia, in ogni classe dovrebbe esserci un docente particolarmente attento ai problemi di apprendimento in generale, che faccia da ponte tra associazioni di esperti e famiglie. La dislessia non deve e non può essere un ostacolo insuperabile: l’intervento precoce, addirittura a partire dalla scuola dell’infanzia, è cruciale e può fare una differenza significativa nel percorso educativo di un individuo. Approcci come l’istruzione multisensoriale, che utilizza più sensi per apprendere, hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci. Questo metodo aiuta a collegare i suoni con i simboli scritti attraverso attività tattili e uditive, ma esistono altri percorsi che offrono ai bambini e alle bambine utili strategie di apprendimento”.
Federica Tonini