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Delusione Ernani

Il soprano Angela Meade (Elvira) e il tenore Francesco Meli (Ernani) - Ph Fabrizio Sansoni
Il soprano Angela Meade (Elvira) e il tenore Francesco Meli (Ernani) - Ph Fabrizio Sansoni

 

Nonostante un cast stellare delude l’Ernani in scena al Teatro dell’Opera di Roma nel vecchio allestimento di Hugo de Ana  

ROMA, 3 giugno 2022 – È l’opera più potente del primo Verdi, dove i rapporti fra i personaggi s’intrecciano alle vicende politiche, come in seguito succederà sempre più spesso nel suo teatro. Tuttavia, nonostante Ernani sia uno di quei drammi capaci d’inchiodare l’ascoltatore alla poltrona, lo spettacolo adesso in scena al Teatro dell’Opera di Roma non centra l’obiettivo e, anzi, lascia la malinconica sensazione di un’opportunità mancata. A dispetto di un cast che sulla carta si annunciava di notevole interesse.

In primo luogo, ben poche emozioni arrivano dall’esecuzione musicale. Marco Armiliato ha impresso dal podio un andamento uniforme, privo di quella varietà indispensabile all’accompagnamento dei momenti solistici e, al contempo, incapace di articolare con la dovuta plasticità i concertati. Né di grande aiuto è stata la parte visuale dello spettacolo: una ripresa dell’allestimento di Hugo de Ana (nato nel 2013 sempre per Roma, quella volta però con Muti sul podio), che firma regia, scene e costumi. L’impatto visivo, con edifici troppo incombenti, riempie l’occhio senza illuminare sulle dinamiche – primordiali, in fondo, ma pure articolatissime – che s’innescano tra i quattro protagonisti. I movimenti mimici, poi, sono apparsi spesso sgraziati e incongrui, quasi ai limiti del grottesco.

Il basso Evgeny Stavinsky (Silva) - Ph Fabrizio Sansoni
Il basso Evgeny Stavinsky (Silva) – Ph Fabrizio Sansoni

In questo vuoto musicale, e in assenza d’indicazioni registiche, ciascun interprete si è regolato in base alla propria esperienza e sensibilità artistica. Ne è uscito pienamente vincitore il baritono francese Ludovic Tézier, forse l’unico davvero in grado di rendere le innumerevoli sfaccettature di un personaggio cui Verdi assegna caratteristiche complesse, che sembrano anticipare la statura morale e politica del Marchese di Posa e di Simon Boccanegra. Così, nell’aria Oh, de’ verd’anni miei è riuscito a comunicare – abbinando ars declamatoria e fraseggio interiore – il profondo travaglio di Don Carlo, che si trasforma da giovane re libertino in imperatore consapevole delle enormi responsabilità che lo attendono (salirà sul trono del Sacro Romano Impero); e ancor più esemplare, forse, è stato il successivo O sommo Carlo, dove Tézier ha dato prova d’una caleidoscopica varietà di accenti, centrando di volta in volta alla perfezione il tono con cui si rivolge ora al popolo, ora alla coppia degli amanti, ora a se stesso.

Nella parte di Elvira figurava poi una delle massime voci di oggi, l’americana Angela Meade, per la prima volta sul palcoscenico romano. Del tutto a proprio agio nel registro di petto – quasi da soprano Falcon – qui sollecitatissimo dalla scrittura verdiana, non ha forse figurato abbastanza nella grande aria Ernani! Ernani, involami per via di un accompagnamento monocorde, che non valorizzava adeguatamente la preziosità della sua linea di canto. Le si deve comunque un emozionante quarto atto, dove è stata magnifica nell’esprimere il dolore, prima infuocato, poi quasi marmoreo, del personaggio.

Nei panni del bandito – in realtà di nobili origini – Ernani c’era invece Francesco Meli, oggi uno dei divi più osannati. Purtroppo è stato lui l’anello debole del cast, per una serie d’imbarazzanti defaillance, ritmiche e non solo. Meli, d’altronde, è un tenore che ha puntato tutto sulla pregevole bellezza della sua voce, che con gli anni ha però inevitabilmente perso smalto e oggi affiorano – in modo fin troppo evidente – problemi tecnici non risolti destinati a comprometterne la linea di canto. Anche se con un direttore diverso, in grado d’indirizzare gli interpreti con una vera e propria “regia vocale”, certi nodi sarebbero venuti meno al pettine.

Completava il quartetto protagonistico il basso Evgeny Stavinsky, preciso e corretto sebbene un po’ fioco e, quindi, più a suo agio come nobile hidalgo che nel tratteggiare i rivolti sinistri e demoniaci del vecchio Silva (peccato non sia stata eseguita la sua cabaletta, anche se aggiunta da Verdi in un secondo momento). I comprimari, come sempre affidati a giovani artisti della scuola di canto del Teatro dell’Opera, non hanno avuto qui gran possibilità di emergere, mentre ampio rilievo e caldi applausi ha ottenuto il coro, preparato da Roberto Gabbiani. Non c’è da stupirsene: è da quando Ernani andò in scena per la prima volta, a Venezia nel 1844, che Si ridesti il leon di Castiglia è diventato l’inno patriottico simbolo del Risorgimento.

Giulia Vannoni