A Görlitz la novità del compositore Cord Meijering dedicata a Gramsci in abbinamento a Suor Angelica
GOERLITZ, 30 aprile 2025 – Era rimasta nel cassetto dodici anni. E solo adesso Gramsci del compositore olandese, ma tedesco per formazione, Cord Meijering è andata in scena al Gerhart Hauptmann Theater di Görlitz (première il 22 marzo). Peccato che nel lungo intervallo di tempo nessuna istituzione teatrale italiana abbia mai pensato a mettere in cartellone quest’atto unico incentrato sulla figura del grande intellettuale antifascista, filosofo e letterato poliedrico: simbolo d’un rigore morale pagato con vent’anni di carcere, che finirono per minare inesorabilmente la sua salute malferma.

A portare in palcoscenico la nuova opera è stato dunque un teatro della Sassonia: Land che, per ironia del destino, oggi è una roccaforte di Afd. Del resto Görlitz, divisa in due dal fiume Neisse che segna il confine tra la parte tedesca e quella polacca (Zgaorzelec, raggiungibile a piedi attraversando un ponte), possiede la vocazione delle città di frontiera: testimoniare i conflitti del passato attraverso varie forme di attenzioni culturali.
Il libretto del giornalista Hans-Claus Jungheinrich, nel frattempo scomparso, delinea le tappe più significative della vita di Antonio Gramsci, scandendole in quindici scene: l’infanzia – a Ghilarza in Sardegna – segnata dai problemi fisici alla schiena e destinati a trascinarsi anche da adulto, gli scontri con Mussolini, i rapporti con Togliatti e Stalin, come pure – nella sfera familiare – quelli con la madre e il fratello Gennaro, o con la moglie Julia e la cognata Tatjana. A innervare l’intero testo, però, è soprattutto la consapevolezza radicata in Gramsci del significato della scrittura come veicolo di valori morali. In poco più di un’ora – tanto dura l’opera – la musica di Meijering non si limita ad assecondare la capacità evocativa del libretto, ma è in grado di creare, scena dopo scena, una tensione sonora che mantiene sempre vigile l’attenzione del pubblico. Il compositore punta sia sull’impatto percussivo sia sulla ricchezza timbrica di un organico affidato – oltre alle consuete sezioni orchestrali – a una ricchissima gamma di strumenti etnici e, nello stesso tempo, a un uso mai invasivo dell’elettronica (soprattutto a supporto della scrittura canora e nei momenti di raccordo fra le scene).
Per quanto riguarda la parte vocale, non sempre agevole per i cantanti, gli effetti più suggestivi sono legati ai momenti corali, organizzati quasi sempre per enfatizzare i passaggi del testo in cui si sottolinea l’importanza attribuita da Gramsci alla scrittura. A valorizzarli, oltre all’Opernchors del Teatro, è stata la presenza dei Tenores di Bitti “Mailinu Pira”: l’intervento del quartetto musicale sardo non si è limitato a suggestive evocazioni ambientali, ma ha così aggiunto ulteriori connotazioni timbriche alla musica di Meijering. La conclusione era invece affidata alle parole registrate di Mussolini che vanno a sovrapporsi alle note di Bandiera rossa: un cortocircuito mentale in cui convergono inevitabilmente riflessioni di carattere storico ed emotivo.
Fondamentale, per la valorizzazione di Gramsci, l’ottima esecuzione della Neue Lausitzer Philharmonie diretta con slancio e, al contempo, millimetrica precisione da Ulrich Kern. Per quanto riguarda gli interpreti, il baritono Buyan Li – in palcoscenico quasi ininterrottamente – è stato un protagonista molto coinvolto sul piano emozionale. Accanto a lui Lisa Orthuber ha affrontato con sicurezza le colorature del ruolo di Tatjana, la cognata; l’espressivo mezzosoprano Johanna Brault è riuscita a incarnare con efficacia la fragilità della moglie, la violinista Julia; mentre un altro mezzosoprano, Yvonne Reich, si è immedesimata con accorata partecipazione nella dolente madre del protagonista. Agli interpreti maschili spettavano più personaggi: il tenore Yalun Zhang ha impresso limpidezza e sonorità sia al fratello Gennaro che a Togliatti, mentre il baritono Hans-Peter Struppe è apparso un po’ troppo stimbrato per dar voce a Mussolini e Stalin (e soprattutto allo spietato medico fascista che visita Gramsci in carcere).
Funzionale ed efficace anche la regia di Bernhard F. Loges, che ha ideato uno spettacolo luminoso ed esplicativo senza essere didascalico. La cornice fissa configura un quadro sghembo, in cui i personaggi entrano con il succedersi delle scene, mentre sul fondale vengono proiettate immagini dell’ambiente sardo e in sovrimpressione si vedono pagine autografe di Gramsci: le stesse che sono disegnate sul costume del protagonista.
Data la breve durata, l’opera era in abbinamento con Suor Angelica: quasi a suggerire – attraverso una liaison des scènes rappresentata dal paesaggio sardo visibile sul fondale – come il carcere possa avere analogie con il convento in cui è rinchiusa la protagonista pucciniana. Anche in questo caso uno spettacolo ben diretto da Kern e con felici intuizioni nella regia di Loges: basterebbe citare la fuga finale di una monaca, evidentemente non dotata dello stesso rigore di Gramsci che non chiese mai la grazia per uscire dal carcere. Nell’ampio e ben amalgamato cast spiccava la protagonista, l’espressivo soprano Patricia Bänsch, fluida nell’emissione e intensa nel fraseggio; nei panni della zia principessa Michal Doron ha sfoggiato una pregevole timbratura contraltile; mentre come badessa e suora zelatrice sono ritornate i mezzosoprani Brault e Reich.
Fra le innumerevoli attività letterarie di Gramsci rientrava la critica musicale. Un intellettuale come lui – che s’interrogava sulle ragioni del successo dei tanti generi popolari, dal romanzo all’opera – formulava i suoi giudizi più sferzanti proprio contro Puccini. C’è da chiedersi se questo accostamento avrebbe incontrato il suo favore: certo non rispecchiava i suoi gusti musicali, ma forse avrebbe stimolato riflessioni e un confronto dialettico. Caratteristiche, queste sì, molto gramsciane.
Giulia Vannoni