Dal 20 novembre Andrea Canevaro è cittadino onorario di Rimini (nella foto la consegna della pergamena da parte del vice sindco Gloria Lisi e del primo cittadino Andrea Gnassi). Ordinario di Pedagogia Speciale all’Università degli Studi di Bologna e figura chiave nello sviluppo del pensiero pedagogico in ambito nazionale e internazionale, è da sempre molto vicino alla capitale del turismo balneare e alle sue “imprese pedagogiche”, che in lui hanno trovato a volte un ispiratore, a volte un “sistematizzatore”.
Professore, qual è il suo rapporto con la città di Rimini e con i riminesi?
“Rimini mi ha sempre affascinato. Da bambino, andando a trovare una mia zia che stava a Torre Pedrera – io arrivavo, con i miei, dal ravennate – e sentivo che quando mi avvicinavo a Rimini mi sembrava di avvicinarmi ad un luogo proibito e meraviglioso. Quando, cresciuto, sono tornato a Rimini, il luogo non è stato più proibito ed è rimasto meraviglioso. Certi scorci della città, vicino al Castello o nelle piazzette tipo quella dei Teatini mi fanno sognare di essere a… Parigi. E incontro persone meravigliose, che tengono un caffè o un forno da pane con l’eleganza disponibile di chi conosce le antiche leggi dell’ospitalità.”
Come è possibile, allora, in questo contesto far crescere i valori dell’accoglienza e dell’educazione anche nella nostra città, in particolare nell’ottica dell’inclusione delle persone con bisogno speciali?
“Occorre partire dalle risorse esistenti per valorizzarle in un progetto che permetta l’assunzione della responsabilità dell’accompagnamento nel progetto di vita, che può anche comprendere la residenzialità, in diverse forme e accanto ad altre proposte. La logica dell’accompagnamento nel progetto di vita dovrebbe introdurre un cambiamento sostanziale: dalla percezione di percorso per un soggetto con bisogni speciali costituito da segmenti, alla costruzione di un percorso personalizzato in cui le parole intreccio e rete siano riferimenti di pratiche socio-educative capaci di dare vita a proposte riabilitative domiciliari, sociali, laboratoriali, residenziali per solo alloggio, residenziali con accoglienza completa… e gli operatori acquisiscano competenze per padroneggiare l’intera gamma delle possibilità che sortiranno, e che nasceranno anche dal loro operare progettando. E questo sarà fatto con il costante dialogo con i famigliari e le reti sociali dei soggetti con bisogni speciali.”
È fiducioso che questo sia possibile?
“Dobbiamo vivere la speranza, che è davanti a noi e non alle nostre spalle. La speranza, dice il vocabolario è attesa viva e fiduciosa di un bene futuro. Sperare è aprirsi al futuro. Un’espressione francese dice che ogni cuore è abitato, almeno una volta, dalla speranza. In una favola di La Fontaine, a proposito di un uomo vecchio che spera di conquistare una fra tre fanciulle, si dice che è meglio che non si illuda: quittez le long espoir et les vastes pensées(abbandoni la speranza troppo ampia e i pensieri troppo vasti). Significa che il futuro deve essere misurato sul possibile, e non lasciato nel vago di un tempo impossibile. Chi vive l’emergenza continua della condizione assistenziale non ha davanti il tempo. Lo ha alle spalle. Se l’attesa è di qualcosa di impossibile, cresce la disperazione. Viaggiando si può imparare a vivere il tempo, anche il tempo dell’attesa. Si può imparare a vivere attese possibili. Vivere gli incontri con fiducia, imparando a distinguere, superando i pietismi che sovente circondano chi vive in condizioni particolari e può sentirsi valutato sempre totalmente, e non unicamente per la specificità di una situazione.”
In questo senso potremmo quindi dire che il viaggio è una metafora della vita?
“Certo. Potremmo pensare che quando eravamo bambini dipendevamo in tutto e per tutto dai nostri genitori, poi siamo cresciuti, siamo diventati capaci di camminare poi di andare in bicicletta: i periodi potrebbero essere scanditi in durate più brevi che permettono di capire meglio quello che succede in una serie di tappe importanti; non siamo nati già completi eppure riteniamo di aver avuto una vita in cui eravamo completi, normali, funzionanti, e poi ci siamo accorti, finalmente, che non siamo mai completi e abbiamo sempre bisogno gli uni degli altri”.
Per concludere, quali progetti ha in cantiere in questo momento nella nostra città?
“Un progetto che mi sta particolarmente a cuore si chiama Università della Marginalità. È un’esperienza in cui abbiamo avviato un percorso per costruire competenze in persone considerate marginali che hanno deciso di mettere la loro sofferenza a servizio di altri in questo progetto. Inoltre parteciperò al laboratorio di Sant’Aquilina promosso dalla Fondazione Enaip: Welfare di prossimità, un atelier dove sviluppare le risorse di ciascuno permettendo al soggetto, anche se portatore di bisogni speciali, di essere agente attivo di cambiamento.”
Silvia Sanchini