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Covid e giovani: ma che colpa abbiamo noi?

La terza fase della pandemia sta procedendo in un generale clima di incertezza e di preoccupazione per la ripresa delle attività produttive, scolastiche e, al contempo, per la temuta seconda ondata di pandemia. L’agognata libertà ed uscita dal confinamento, dopo una fase di euforia, richiede ora una nuova fase di controllo.

Sul piano sanitario, a tutela della ripresa in corso, si intensificano le attività di prevenzione e contenimento del COVID19 (screening e ricerca e gestione dei contatti del malato-contact tracing).

Proprio tali pratiche hanno evidenziato un elevato numero di giovani portatori asintomatici della malattia, ora ritenuti potenziali, significativi vettori di trasmissione del virus. I giovani, più di altre fasce di età, si suppone infatti siano presenti in luoghi di assembramento e coinvolti in attività di gruppo, con la convinzione/presunzione di essere sani proprio perché asintomatici.

Questo fatto suscita allarme: l’opinione pubblica presenta i giovani come irresponsabili e incontrollabili oppure, all’opposto, come esenti da ogni responsabilità proprio in virtù della loro età e quindi ingestibili.

Ma sono proprio così tutti i giovani?

In questa situazione, non ci si può davvero aspettare alcun coinvolgimento da parte loro?

Allora, come rendere i giovani parte attiva nella lotta al COVID?

Ne parliamo con Elena Buday, psicologa e psicoterapeuta dell’adolescenza, socia dell’Istituto Minotauro, dove svolge attività clinica e didattica; è e membro del comitato scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia dell’Adolescente e del Giovane adulto di Milano; autrice di Imparare a pensare (2010), Non succede per caso (2018) e Costruire l’identità (in stampa), e con Nicoletta Marcheggiani, psicologa, psicoterapeuta dell’Età Evolutiva, docente e supervisore della scuola di Specializzazione in psicoterapia PSIBA (Istituto di psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente), terapeuta practitioner EMDR; relatrice del Webinar OPL “La psicoterapia online con i bambini all’epoca del Corona virus” Elena Buday: “In effetti, anche sulla spinta dell’ansia suscitata dal perdurante rischio, la rappresentazione sociale dei giovani sembra polarizzarsi verso due rappresentazioni opposte: – una compiacente, permissiva, iperprotettiva: sono ragazzi, non possiamo chiedere di confrontarsi con problemi più grandi di loro, lasciamo che si preparino alla vita adulta godendosi la giovinezza finchè possono, in modo, allegro, spensierato e anche un po’ sventato; – l’altra severa e punitiva: sono sregolati, inaffidabili, va data loro una stretta per prepararli ad un futuro fosco che comunque difficilmente sapranno affrontare.

Sono rappresentazioni estremizzate; quando si parla con i giovani, queste rappresentazioni non trovano riscontro.

Noi li vediamo sani, forti, belli, esenti da problemi, più fortunati sia di noi sia di quanto loro stessi non si sentano in realtà. Certamente, il progressivo aumento dei contagi, cui si sta assistendo dalla fine delle vacanze, richiede un cambio di direzione e un rinnovato rispetto delle regole anti contagio da parte dei giovani, ma forse è possibile seguire una terza via”.

Quale è questa terza via?

Elena Buday: “Dobbiamo considerare che la generazione attuale, cresciuta dai nonni, ha in loro delle figure di riferimento affettive centrali. È così che molti giovani accettano di buon grado di seguire le norme, a scapito delle loro personali esigenze di aggregazione e partecipazione alla vita di gruppo: per proteggere i propri nonni.

È noto infatti, già dai tempi della campagna di prevenzione delle malattie sessuali e dell’AIDS, che, se si fa leva sul rischio e sulla paura, tendono a sfidare la sorte, perché hanno bisogno di conoscere e mettere alla prova i propri limiti. Se si fa leva, invece, sugli aspetti affettivi, di cura delle persone più fragili, allora diventano disponibili. Gli aspetti affettivi hanno più presa. Per usare il loro gergo: la paura è da sfigati, la responsabilità protettiva non è da sfigati. Escluderli da questo impegno collettivo sarebbe perdere una occasione per farli crescere, perché stare nella realtà e sapere affrontare la realtà è crescere.

Lasciarli da parte, procrastinare il loro impegno è infantilizzarli”.

Nicoletta Marcheggiani: “La maggior parte dei giovani, infatti, non sono incontrollabili né ingestibili, fanno solo fatica ad autogestirsi perché hanno bisogno di mettersi alla prova, fino a sconfinare in atteggiamenti di onnipotenza: il Covid non mi tocca. Da qui atteggiamenti all’apparenza irresponsabili. Hanno bisogno di essere orientati da una guida credibile. Allora sanno anche stare dentro le regole”.

In definitiva, i giovani si attivano non per paura, ma quando vedono riconosciuto e valorizzato il loro contributo alla protezione e cura degli individui più deboli. Ma chi si assume questo ruolo di guida?

Elena Buday : “Innanzitutto la comunità di appartenenza e gli adulti di riferimento: da loro devono venire messaggi non ambigui. Un esempio recente: se si decide di aprire le discoteche, si deve prevedere che loro ci andranno. Prescrizioni, quali l’uso di mascherine, il distanziamento, la chiusura di luoghi di aggregazione/assembramento, sono state esposte al dibattito politico, in funzione meramente elettorale. E così le regole vengono rispettate o meno a seconda del politico che le sostiene. Non sono più direttive credibili fondate su verità scientifiche ma dati dibattuti in modo spesso contraddittorio, scomposto e confusivo”.

Nicoletta Marcheggiani: “L’invito al rispetto delle norme deve provenire da figure in cui il giovane possa riconoscersi e con cui possa identificarsi. Serve un nuovo patto tra generazioni, da stringere all’interno di un rapporto affettivo e di reciproco riconoscimento.

Durante il lockdown era prevalso il senso di responsabilità; la maggior parte è stata in grado di rispettare le regole. La vera confusione è nata alla riapertura: cosa era lecito, cosa no; cosa si poteva fare, cosa no; non c’erano risposte chiare.

Molte persone sono uscite con cautela adottando le dovute precauzioni, altre con ostentata spavalderia si sono precipitati fuori, nelle strade, sentendosi libere da ogni restrizione e insofferenti a ogni limite posto al loro diritto alla libertà.

Complice forse la tregua estiva e la voglia di leggerezza dopo il confinamento subito, ci si è illusi che il peggio fosse passato e con questo è tornato il disinteresse verso gli altri.

La partita è ancora da giocare: ora bisogna trovare un equilibrio tra la necessità di mantenere un atteggiamento prudente e di cautela e la ripresa della vita sociale e lavorativa; questa condizione di maggiore libertà richiede quindi una accresciuta responsabilità da parte di ciascuno. Dunque ora servono delle norme nuove, chiare e adulti credibili.

La scuola va aiutata a non perdere questa occasione di potenziale rinnovamento.

Nella narrazione e rielaborazione di quanto è accaduto, ci sarebbe lo spazio per costruire un’alleanza intergenerazionale, che valorizzi il ruolo dei giovani nella tutela della salute dei più fragili dentro un progetto collettivo condiviso, fuori e dentro la scuola”.

Lucia Carli