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Il tempo della Restaurazione – Il conflitto fra innovatori e conservatori

Il-tempo-della-Restaurazione---rimini-arco-d'augustoIl tempo della Restaurazione – Con la restaurazione attuata dal Congresso di Vienna – nel quale, grazie alle doti diplomatiche del cardinale Consalvi, lo Stato della Chiesa aveva conservato gli antichi confini – si trattava di operare sul piano pastorale e politico per far sì che la vita della comunità cristiana riprendesse i consueti ritmi e contenuti.
Ma gli anni del dominio napoleonico, con l’introduzione dei nuovi statuti, col culto della dea Ragione e le manifestazioni del libero pensiero, avevano mostrato che esisteva un’ alternativa alla proposta cristiana e che era possibile sovvertire gli antichi ordinamenti col ricorso alle nuove filosofie e ideologie.

Un conflitto continuo fra innovatori e conservatori
Quello della restaurazione fu quindi – a Rimini come altrove – un progetto complesso e contraddittorio, costantemente attraversato dal conflitto tra conservatori e innovatori.
Le stesse posizioni del vescovo Ridolfi, giudicate troppo innovative, vennero contrastate dal Sinodo diocesano da lui convocato nel 1818, sinodo che riaffermò con decisione il ritorno alle posizioni del Concilio di Trento sia nella definizione di Chiesa come “realtà organizzata gerarchicamente, con un diritto e dei pubblici ministeri”, sia nella restaurazione della disciplina ecclesiastica.
Nella realtà dei fatti, tuttavia, risultò difficile cancellare gli ultimi venti anni. Come si ricava dalla relazione sulla situazione della diocesi che il vescovo, ormai ammalato, mandò a Roma per mano del canonico Ottavio Zollio, il numero delle parrocchie rimase quello deciso dal governo della Cisalpina, non tutti gli ordini religiosi cacciati da Napoleone poterono rientrare, la Chiesa non riuscì a riottenere i beni che erano stati alienati, la vita del seminario, riaperto già nel 1806, procedeva con estrema difficoltà per la mancanza di entrate utili al mantenimento degli studenti…

Zollio, vescovo moderato in tempi di restaurazione
Le difficoltà del momento emergono con evidenza anche dal fatto che mons. Francesco Guerrieri, il vescovo che nel 1819 successe a Ridolfi, rimase a Rimini meno di un anno e, tornato a Roma, già all’inizio del 1822 comunicò la sua rinuncia formale all’incarico. La diocesi fu governata per due anni da un amministratore apostolico, mons. Giovanni Marchetti, fino alla nomina di mons. Ottavio Zollio (1824-1832), proveniente da due anni di cura pastorale come vescovo della vicina Pesaro, conosciuto e apprezzato in diocesi, dove aveva operato in qualità di vicario. Pastore solerte e intelligente, riuscì a realizzare quel comportamento insieme “forte e soave”, che il papa Leone XII (1823-1829) raccomandava nell’enciclica Ubi primum, in considerazione di “quanto forti e furiosi combattimenti …quasi ogni giorno sorgano contro la religione cattolica”.
Da una parte provvide ad arginare le difficoltà economiche del clero, con la gestione e la prudente distribuzione dei benefici del Capitolo; dall’altra favorì quanti tra i sacerdoti non intendevano rinunciare all’anelito missionario e cercavano di recuperare gli sbandati. Durante gli otto anni del suo episcopato, vennero predicate missioni popolari, esercizi spirituali e nel 1826, a seguito del grande giubileo dell’anno precedente, venne indetto un periodo giubilare di sei mesi.

Arrivano i Missionari  del Preziosissimo sangue
Nel 1824 chiamò a Rimini i missionari del Preziosissimo sangue, la congregazione fondata da san Gaspare del Bufalo, che iniziarono a operare – dedicandosi alla predicazione e all’insegnamento – accanto alle ripristinate confraternite, in particolare quelle mariane e quelle legate alla passione di Cristo, che contribuivano a tener viva nel popolo una religiosità “quotidiana”, che non si esauriva nei momenti di festa o nelle celebrazioni liturgiche, ma permeava di sé ogni momento della giornata, e che si rivelò uno straordinario collante sociale nei lunghi anni delle tormentate vicende politiche.
Mons. Zollio si occupò anche della formazione del clero, in continuità con le costituzioni approvate da mons. Ridolfi, che stabilivano in maniera puntuale come dovesse svolgersi la giornata del seminarista, quali fossero i compiti del rettore, dei prefetti e degli inservienti e come dovesse essere regolata l’attività dei maestri; e si preoccupò di fornire sostegno ai poveri attraverso l’Istituto della carità e beneficenza, che era stato riorganizzato nel 1822 dal vicario apostolico.

I moti rivoluzionari a Rimini
La sua moderazione si manifestò in particolare sul versante politico, in occasione dei moti insurrezionali del 1830-31. Infatti, nonostante il fallimento dei moti rivoluzionari del 1821, la condanna delle sette rivoluzionarie ribadita più volte da Leone XII, i provvedimenti restrittivi del cardinale legato Agostino Rivarola, nei territori romagnoli continuava a serpeggiare il malcontento nei confronti della politica del restaurato Stato Pontificio. Il luglio francese che nel 1830 aveva portato al trionfo della borghesia e del regime parlamentare, innescò una serie di fermenti che, inaspriti dalla condanna di Ciro Menotti ad opera del duca di Modena Francesco IV, sfociarono nel febbraio del 1831 nella proclamazione di un Governo delle province unite nella Romagna e nelle Marche. L’avventura non durò nemmeno due mesi, per l’arrivo delle truppe austriache; a nulla valse la resistenza, nel Riminese, delle truppe del generale Zucchi.

La lettera del giovane  don Alessandro Berardi
Ciò che era accaduto, però, fu motivo, nei più avvertiti, di una profonda riflessione. In una lettera “aperta”, il giovane sacerdote Alessandro Berardi, chiedeva ad un ipotetico interlocutore cosa ne pensasse degli avvenimenti di quei giorni, sosteneva la necessità che il papato si liberasse del peso del potere temporale e, dando voce ad un malessere diffuso tra il clero delle parrocchie, sottolineava il danno che proveniva dalla pesante tassazione unita al grande spreco pubblico. A salvarlo fu la protezione del vescovo Zollio, che, anche per questo, venne accusato di essere troppo benevolo verso la rivoluzione. Solo l’analisi delle sue lettere pastorali, che ne misero in evidenza la “pietà cristiana”, impedì che venissero presi provvedimenti sanzionatori nei suoi riguardi.
Quanto fosse fluida e difficile la situazione è testimoniato dal fatto che l’anno seguente si assiste ad una nuova, violenta repressione ad opera del cardinale Albani, che provoca un sollevamento generale e l’arrivo delle truppe austriache, che occupano la Romagna, e di quelle francesi che – preoccupate che l’Austria divenga troppo influente all’interno dello Stato Pontificio – occupano Ancona. Le cancellerie degli stati coinvolti, dopo le energiche proteste di rito, sembrano giungere ad un accordo, ma la situazione rimase di fatto inalterata fino al 1838.

(1 – continua)
Cinzia Montevecchi