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Conflitti senza tempo e luogo

John Osborn (Henri), Roberta Mantegna (Hélène), Roberto Frontali (Montfort) - Ph Yasuko Kageyama

A Roma con Les vêpres siciliennes di Verdi nell’edizione originale francese si è inaugurata la nuova stagione del Teatro dell’Opera   

ROMA, 15 dicembre 2019 – Il nodo drammatico dei Vêpres siciliennes, secondo la regista Valentina Carrasco, sono le lacerazioni del cuore: per la siciliana Hélène è il contrasto fra l’insanabile dolore causato dall’uccisione del fratello e l’amore verso Henri; per il governatore Montfort, invece, è l’imperativo politico di mantenere l’ordine a entrare in rotta di collisione con i sentimenti paterni, dopo aver preso atto che il ribelle Henri è suo figlio; mentre per quest’ultimo è l’amore di Hélène, insieme ai sentimenti patriottici, a scontrarsi con l’improvvisa scoperta che il tiranno dell’isola è suo padre. Solo il medico Giovanni da Procida sembra estraneo ai tormenti psicologici: immune da tentennamenti e proteso solo a difendere la causa dell’indipendenza della Sicilia, nel XIII secolo, dagli occupanti Angioini. A questi contrasti interiori fanno da cornice un luogo petroso e astratto, con grandi muraglie (una Palermo solo mentale) disegnate da Richard Peduzzi, in cui si integrano i costumi senza tempo di Luis Carvalho.

La regista argentina, che ha firmato lo spettacolo inaugurale della stagione del Teatro dell’Opera, ha vinto alla grande una sfida molto impegnativa – qualche lieve dissenso fra gli spettatori più tradizionalisti non ne diminuisce certo il valore – perché le oltre quattro ore di musica scorrono senza alcun cedimento, tenendo il pubblico con il fiato sospeso, come capita raramente. Merito, senza dubbio, anche della concertazione di Daniele Gatti, che riesce a trovare un’ideale sintonia con quanto si vede sulla scena, e di un insieme d’interpreti che hanno mostrato grande adesione ai loro personaggi: dal quartetto protagonistico a ogni comprimario.

Les vêpres siciliennes, Michele Pertusi (Procida), John Osborn (Henri) – Ph Yasuko Kageyama

E dire che Les vêpres siciliennes non è certo un titolo fra i più facili, né di presa immediata: primo vero esperimento verdiano di grand-opéra (fu scritta per Parigi nel 1855), arriva subito dopo la ‘trilogia popolare’, presentando un andamento insolito nello sviluppo dei personaggi. Eppure è proprio questo suo carattere anomalo ad affascinare sopra ogni altra cosa. Gatti è stato molto vigile nel sottolinearlo, attraverso una cura minuziosa dei dettagli sonori, e sempre benissimo assecondato dall’orchestra del Teatro dell’Opera, che raramente si è ascoltata a tali livelli di eccellenza: basterebbe pensare alla sinfonia, anatomizzata nei suoi infiniti dettagli, e – forse ancor più – al distillatissimo inizio del terzo atto. In questa lettura le danze (coreografate dalla stessa Carrasco e Massimiliano Volpini), da corpo estraneo – tanto che di solito vengono tagliate – si sono trasformate in un momento di grande teatro: una sorta di racconto metaforico dell’intera vicenda. Toccante la grammatica dei gesti cui ricorrono le ragazze violentate: prima si lavano, poi iniziano a sbattere i vestiti alla maniera delle vecchie lavandaie, nella volontà di scrollarsi di dosso la traumatica esperienza. Lo sguardo al femminile della Carrasco si coglie innumerevoli volte: durante la tarantella del secondo atto, nella scena che precede lo stupro collettivo delle donne siciliane da parte dei soldati francesi, i danzatori ballano con dei manichini, mentre le ragazze in carne e ossa si aggirano fra le coppie, per mostrare come di una donna si può possedere il corpo, ma non la mente; allo stesso modo, gli aspetti più oscuri di ogni guerra civile vengono evocati dalla continua presenza in scena di figure femminili di ogni età, testimoni mute di una lotta che si consuma fra uomini.

L’accuratissimo lavoro registico sugli interpreti permette a ognuno di definire al meglio il proprio personaggio. Un fuoriclasse come l’eclettico tenore americano John Osborn ha affrontato il personaggio di Henri, cui Verdi – al di là di una certa prevalenza di accenti patetici – sembra non assegnare una fisionomia vocale precisa (l’ultima aria, nel quinto atto, è quasi da tenore contraltino), con invidiabile sicurezza e sorprendente facilità, anche quando Gatti tiene fin troppo alti i volumi orchestrali. Splendidi entrambi i duetti con il bravissimo baritono Roberto Frontali, che ha saputo disegnare con notevole varietà di accenti prima un solido e ruvido Montfort, poi un personaggio raddolcito e paterno. Il giovane soprano Roberta Mantegna ha confermato le sue qualità vocali e, nonostante qualche acerbità, è riuscita a costruire una Hélène presa fra più fuochi. Seppure con voce un po’ stimbrata, Michele Pertusi ha disegnato un efficacissimo Procida, inflessibile nei suoi progetti rivoluzionari. Bravi anche tutti i comprimari, a cominciare dal mezzosoprano Irida Dragoti e dal tenore Francesco Pittari, impegnati come Daniéli e Ninetta nel difficile quartetto a cappella del primo atto.

Come si diceva, l’orchestra romana ha suonato benissimo, così come il coro (preparato da Roberto Gabbiani) che ha dato il meglio di sé. Per uno spettacolo quasi perfetto, certamente degno di una grande apertura di stagione.

Giulia Vannoni