Manga di culto creato da Masamune Shirwo nel 1989, trasformato in film d’animazione nel 1995 da Mamoru Oshii (con sequel del 2004), Ghost in the Shell arriva su grande schermo in versione live-action per la regia di Rupert Sanders (Biancaneve e il cacciatore) con Scarlett Johansson nel ruolo del personaggio principale (il “Maggiore”) affiancata da Pilou Asbaek, Takeshi Kitano, Michael Carmen Pitt e Juliette Binoche.
Questa nuova versione cinematografica si muove su sentieri già battuti in un immaginario cinematografico espresso abbondantemente in molti capitoli dedicati alla cultura cyborg: così il mondo futuristico immaginato nel film ha tutto il sapore di un immenso déjà vu e nonostante il fascino e la carica della protagonista che certo non disdegna l’azione (vedi Vedova Nera negli Avengers) Ghost in the Shell si comporta giusto per cercare portare a casa il risultato utile al botteghino, con le fascinazioni cyberpunk quasi svanite, e chi ha trovato più di un motivo d’interesse verso le tematiche robotiche (la protagonista è un androide che mantiene caratteristiche umane – il ghost del titolo – in un corpo artificiale) non riuscirà ad entusiasmarsi con uno show diretto con sufficienza da un regista che non possiede il piglio giusto e l’esperienza visiva necessaria per trasformare un innocuo film spettacolare in un racconto di maggiore profondità.
Del resto oggi Hollywood (ma dietro all’operazione ci sono anche capitali orientali) non sembra procedere su versanti troppo innovativi e l’autorialità del passato è sostituita dalle necessità industriali che creano spesso prodotti con tanta tecnica ma poco cuore e cervello, destinati a generazioni poco avvezze a riflettere sulle simbiosi tra uomo e tecnologia.
Il Cinecittà di Paolo Pagliarani