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In chiesa ben distanziati nelle panche

La partecipazione alla messa, in questo periodo di pandemia, mi ha fatto uno strano effetto, e credo l’abbia fatto a tutti; non tanto per le mascherine d’ordinanza, quanto per la distanza che, certo giustamente, bisogna tenere tra i fedeli nelle panche.

Già, le panche; tutte uguali, formate da sedile e da inginocchiatoio, ben funzionali alla preghiera e alla meditazione, che riempiono ordinatamente la navata e ormai fanno parte integrante dell’architettura stessa delle chiese: come si stava in chiesa quando le nostre panche non erano ancora state inventate? E da quanto tempo saranno in uso? Il quesito mi ha preso per tutta la settimana, e qui provo a scrivere quello che mi risulta.

Per molti secoli, direi fino alla metà o alla fine del XVI, nelle chiese non ci sono state né panche né sedie.

Nelle chiese importanti in prossimità dell’altare c’erano solo i seggi del vescovo e delle autorità, adeguatamente addobbati, ma le navate erano completamente vuote, e i fedeli stavano in piedi o in ginocchio o seduti per terra (ma può darsi che alcune persone anziane si portassero dietro un qualche sgabello). Oggi è veramente difficile immaginare come allora la gente stesse in chiesa senza le panche, specialmente durante le affollate funzioni straordinarie, molto frequenti nel Medio Evo: certo non ordinatamente come oggi, ma in maniera confusa e, sembra, anche rumorosa.

Sappiamo che c’erano molti poveri che chiedevano insistentemente l’elemosina ovunque e a tutti, giovani che tenevano d’occhio le ragazze, mamme che consolavano i bambini piangenti, allattavano i più piccoli o inseguivano i più grandicelli che scappavano. Alle donne e agli uomini in teoria erano riservati settori separati, ma gli uomini in genere erano pochi e si affacciavano in chiesa solo verso la fine delle cerimonie per sentire gli avvisi delle autorità pubbliche, che i preti erano tenuti a diffondere.

Alcune donne, da sole o in gruppo, durante la messa si muovevano più o meno devotamente intorno alle immagini ritenute miracolose, altre pregavano inginocchiate davanti agli altari dedicati ai santi taumaturghi, altre ancora chiacchieravano del più e del meno. Non di rado in chiesa avvenivano zuffe, e più di una volta fra il XV e il XVII secolo si ebbero omicidi e attentati, privati e politici, anche clamorosi, proprio durante la messa domenicale (si ricordi la congiura dei Pazzi contro i Medici a Firenze, nel 1478; o quella degli Adimari contro Pandolfo IV Malatesta a Rimini, nel 1498).

Va detto che delle celebrazioni liturgiche nessun laico capiva niente e ben pochi cercavano di capire. Dal Seicento (e possiamo dire fino ai nostri giorni) molte donne devote durante la messa, anziché seguirla, dicevano il Rosario. Ad un certo punto – ma non so quando – venne messo in uso il suono del campanello all’elevazione per attirare un po’ di attenzione e fare un po’ di silenzio almeno in quel momento.

D’altra parte il latino del celebrante già nel Medio Evo era del tutto incomprensibile ai fedeli; inoltre l’altare e il celebrante non erano vicini alla gente: stavano in fondo all’abside, ed erano quasi completamente nascosti dai sedili del coro dei monaci nelle chiese conventuali, dei canonici nelle cattedrali, dei chierici in quelle parrocchiali, posti sempre davanti all’altare. Le cattedrali e le chiese importanti avevano quasi sempre altare, coro e pulpito sul presbiterio molto rialzato, sotto al quale si trovava la cripta, quindi erano lontani e ben poco visibili. Le chiese conventuali invece avevano un “tramezzo” che serviva a separare la chiesa dei monaci da quella dei semplici fedeli, costituito da una balaustra e un colonnato sul cui architrave erano poste immagini sacre dipinte o scolpite (l’“iconostasi”: ne ripaleremo).

Dopo il Concilio di Trento, cioè negli ultimi decenni del XVI secolo, si cominciò ad avvicinare l’altare al popolo e si cercò seriamente di “correggere” il comportamento dei fedeli e di affrontare il problema della “didattica” religiosa, prima assai trascurato. Le cripte vennero demolite e i tramezzi eliminati; e si diede la possibilità di introdurre nella navata delle semplici panche almeno durante i periodi delle predicazioni, che spesso vertevano proprio sul comportamento da tenere nei luoghi di culto.

Credo che solo al secolo successivo si debba un uso abbastanza generalizzato di panche simili alle attuali, fornite da famiglie nobili e benestanti.

Ma si trattava di mobili privati, che recavano ben in vista il nome dei proprietari e non potevano essere usati da chiunque; se un estraneo li occupava veniva mandato via in malo modo all’arrivo della famiglia intestataria (con i suoi eventuali ospiti). Spesso negli archivi parrocchiali si trovano ancora gli schemi della disposizione di queste panche, disposizione che non doveva mai essere alterata. Le famiglie aristocratiche più facoltose ne avevano di grandi e comode, con alte spalliere ricciolute e dipinte. 

Nell’immediato dopoguerra ce ne erano ancora alcune nella chiesa riminese di Sant’Agostino; io avevo solo cinque o sei anni, ma ricordo ancora molto bene che per vedere qualcosa oltre la spalliera che mi stava davanti dovevo alzarmi in punta di piedi sull’inginocchiatoio e mettere gli occhi dove i riccioli erano più bassi. Sappiamo che fra quegli alti schienali avveniva di tutto (anche incontri amorosi, raccontati con divertita malizia da alcuni cronisti setteottocenteschi).

Mi piace riprodurre qui il particolare di una cartolina illustrata raffigurante la gente che, sul mezzogiorno, esce dalla messa (l’ho trovata in un libro del 1979, Romagna e romagnoli, ed. Maggioli, p. 259). Fra le signore con ombrellino si vede bene, in primo piano, una servetta che trasporta due sedie; un po’ più lontano ce n’è un’altra; le sedie sono quelle che avevano portato in chiesa per le loro padrone prima della messa. Non si tratta di una immagine medievale proveniente da chissà quale paese lontano, ma di una fotografia fatta a Bellaria all’inizio del Novecento.

Pier Giorgio Pasini