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Carcere duro

Pawel Żak (il giovane prigioniero), Carolyn Sproule (la prostituta) - Ph Fabrizio Sansoni

Al Teatro dell’Opera di Roma Da una casa di morti, ultima opera di Leoš Janáček, nel nuovo allestimento del polacco Warlikowski  

ROMA, 27 maggio 2023 – L’aquila non c’è: il regista Krzysztof Warlikowski la cancella nella messinscena dell’ultima opera di Janáček, Da una casa di morti, per sostituirla con un giocatore di basket. L’animale ferito che campeggia nel romanzo di Dostoevskij da cui il compositore ceco ha tratto il libretto, e che per i detenuti rappresenta il simbolo dell’agognata libertà, viene così rimpiazzato da un giovane che palleggia e si allena a centrare il canestro. Siamo dunque in un carcere del nostro tempo, come ci ricordano – durante i preludi ai tre atti – i video con testimonianze del filosofo Michel Focault e di un condannato a morte in attesa dell’esecuzione: forse, per chi ha commesso dei reati o vive ai margini della società, la via del riscatto passa più facilmente attraverso lo sport, anziché identificarsi con le ali di un uccello impossibilitato a volare.

Erin Caves (Grande Prigioniero), Štefan Margita (Filka), Lukáš Zeman (Nikita) – Ph Fabrizio Sansoni

La rappresentazione di un’umanità dolente e violenta, che Janáček delinea con straordinaria potenza espressiva nella sua ultima opera (rimasta incompiuta e andata in scena postuma nel 1930), ha nel regista polacco un interprete sensibilissimo: in costante risonanza con le più intime sfumature di una partitura dove lo straziante racconto è avvolto dallo sguardo pietoso, e sempre intensamente partecipe, del compositore.
Warlikowski ne mette in luce sia la sensibilità in anticipo sui tempi sia, soprattutto, la formidabile architettura musicale (basta osservare in che modo realizza l’inizio della pantomima nel secondo atto, con i detenuti-attori che sgambettano come ballerine da avanspettacolo); e trova un’autentica coautrice dello spettacolo in Małgorzata Szczęšniak: senza che resti traccia né di ambientazione siberiana né di epoca ottocentesca, la sua scenografia – una scatola metallica girevole che configura un ambiente algido e asettico – lascia intatta l’idea “metafisica” del carcere che, dietro la facciata della cronaca diaristica, promana in Dostoevskij.

Fondamentale, in quest’edizione andata in scena all’Opera di Roma, è stato poi il contributo di un direttore dalla spiccata personalità come Dmitry Matvienko, che ha scelto di affidarsi all’edizione critica elaborata da John Tyrrell nel 2017: priva di aggiunte all’orchestrazione e che salvaguarda il pur incompiuto originale. Sempre ben corrisposto dall’orchestra romana, da cui ottiene una precisione ritmica assoluta, il giovane maestro bielorusso riesce a valorizzare quell’inesauribile varietà timbrica che rappresenta il tratto distintivo di Janáček, facendo ricorso anche a strumenti non convenzionali, materici, in grado di ricreare in modo quasi onomatopeico sonorità barbariche (sembra di avvertire gli echi della Lady Macbeth di Šostakovič) e asprezze che rimandano a Prokof’ev. Da un lato, Matvienko rende così giustizia a quella cultura russa che non si esaurisce nella sola fonte librettistica, mentre dall’altro valorizza l’universo sonoro di Janáček, sperimentatore indomito sul piano strumentale come su quello vocale.

Grazie alla simbiosi musicale e visiva prende così forma, in modo del tutto antinarrativo, la fisionomia di quest’umanità derelitta, dove si trovano accostati il semplice vagabondo e il più efferato omicida, e in cui s’intrecciano numerose storie, perfino difficili da seguire (mancano arie in grado di caratterizzare i personaggi e a complicare la comprensione, nel secondo atto, interviene una pantomima incentrata sui tradimenti), ma che contribuiscono tutte a imprimere un carattere corale al racconto. Lo stesso auspicato dal compositore ceco, appunto.

Questo universo interamente maschile (tranne un’unica eccezione), delineato soprattutto da tenori con diversa estensione e dove la musica di Janáček sembra modellarsi sul parlato, a Roma poteva contare su un cast internazionale di ottimi interpreti. Spiccano l’umanità incredula e pacata del basso-baritono Mark Doss nel ruolo del detenuto politico Gorjančikov, alter ego di Dostoevskij, e la ferocia tagliente del tenore Štefan Margita, ergastolano sotto falso nome, mentre sprazzi di tenera pietà arrivano dalla figura del giovane tartaro Aljeja, un Pascal Charbonneau efebicamente tenorile. Ma sono da ricordare anche il canto visionario di Julian Hubbard (Skuratov), l’imponente declamazione di Leigh Melrose (Šiškov), la crudeltà gratuita – e soprattutto ottusa – dell’anziano direttore della prigione interpretato da Clive Bayley.
Unica figura di donna l’esuberante ed espressivo mezzosoprano Carolyn Sproule, nelle succinte vesti di una prostituta autorizzata a prestare i suoi servizi ai detenuti, destinata a diventare incarnazione dei fantasmi femminili che popolano il passato dei carcerati. La regia valorizza anche le figure del vecchio prigioniero, interpretato con voce flebile ma penetrante da Colin Judson, e quella del grande detenuto (un’autorità rispettata nella gerarchia del carcere), incarnato da Erin Caves, tenore sovrastante per volume vocale non meno che per stazza. Sarà lui, alla fine, a prendersi cura del giocatore di basket – nel frattempo ridotto in carrozzina – e a infondendogli quel coraggio necessario a sollevarsi e andare di nuovo a canestro. Spiccando il volo al posto dell’aquila.

Giulia Vannoni