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Capolavoro dimenticato e poco valorizzato

Anastasia Bartoli (Zelmira) e Marko Mimica (Polidoro) - PH Amati Bacciardi

Inaugurata a Pesaro la quarantaseiesima edizione del ROF con Zelmira opera del periodo napoletano 

PESARO, 10 agosto 2025 – È una fra le opere meno valorizzate del catalogo rossiniano. Eppure è indiscutibilmente un capolavoro: non solo per una scrittura vocale dal virtuosismo sempre finalizzato all’espressività, ma soprattutto per la bellezza e l’articolazione degli interventi orchestrali che – pur mancando la sinfonia – si collegano alle parti cantate in modo da costruire un’unica arcata, di mirabile eleganza e compattezza. Tuttavia, nelle riprese, Zelmira non ha mai raggiunto quel livello esecutivo che avrebbe permesso di apprezzarne tutte le potenzialità. Neppure le edizioni del ROF – dove quest’anno è stata scelta per inaugurare la quarantaseiesima edizione – sono state segnate da troppa fortuna, anche se ogni volta per motivi diversi.

In piedi, Anastasia Bartoli (Zelmira) con Marina Viotti (Emma) – PH Amati Bacciardi

Né riesce a renderle pienamente giustizia l’edizione 2025. Sul piano visivo il primo impatto è d’una genericità di fondo, dove l’aggancio con la drammaturgia è del tutto pretestuoso. Lo spettacolo portava la firma di Calixto Bieito, al suo debutto pesarese: un regista capace di offrire letture secondo angolazioni inedite, talvolta sagaci e talaltra inutilmente provocatorie.
Per Zelmira purtroppo ha scelto la seconda strada, realizzando uno spettacolo che, oltre tutto, non tiene conto degli inconvenienti sonori posti da uno spazio come l’Auditorium Scavolini. Insieme a Barbora Horáková (a proposito, perché non affidare direttamente a lei lo spettacolo, visto che è pure un’ottima regista?) ha concepito un gigantesco palcoscenico rettangolare al centro, con l’orchestra incastonata al suo interno e il pubblico disposto a cerchio sulle gradinate. Non credendo troppo al testo di Leone Tottola – uno di quei librettisti a torto sottovalutati – il regista spagnolo ha introdotto qualche elemento che avrebbe dovuto essere trasgressivo, come il rapporto omosessuale tra Antenore (che aspira a diventare re) e Leucippo (sorta di eminenza grigia che lo spinge nella conquista del potere). E per rispettare la parità di genere, tanto più che l’azione si svolge a Lesbo, correva anche l’obbligo di un bacio saffico tra la protagonista e la fedele Emma: insomma una sorta di conformismo queer, che non aggiunge niente di nuovo a Rossini e ormai non scandalizza più nessuno. Tutt’al più fa sbadigliare.

Sul versante musicale, Giacomo Sacripanti non è riuscito a trarre dagli strumentisti una sufficiente continuità sonora, indispensabile a valorizzare la musica: peraltro, l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna – da quest’anno ha preso purtroppo il posto dell’ottima Orchestra Sinfonica della Rai di Torino – si è mostrata non particolarmente duttile nel cogliere gli input della bacchetta. Lodevole invece, al netto di qualche attacco poco preciso, la prova del Coro del Teatro Ventidio Basso, preparato da Pasquale Veleno.

Migliore, per fortuna, la situazione sul versante vocale, nonostante la disposizione spaziale creasse spesso problemi di udibilità ai cantanti. Zelmira è l’opera che nel 1822 conclude la stagione napoletana di Rossini prima del suo definitivo addio all’opera italiana (che avverrà l’anno successivo con Semiramide, ma concepita per Venezia) e si basa, come le opere di quel periodo, su una triade vocale formata da ‘soprano Colbran’, baritenore e tenore contraltino, cui si aggiungono vari altri personaggi di complemento.
Il terzetto protagonistico qui era formato da Anastasia Bartoli, a suo agio in una tessitura anfibia che la costringe ora a raggiungere vertiginose altezze, ora a rifrazioni mezzosopranili, tutte comunque affrontate con estrema sicurezza. Ben più problematica la situazione di Enea Scala che, alle prese con la tessitura altrettanto ambigua di Antenore, è costretto a puntare – laddove non lo soccorre la solidità e l’omogeneità del canto – solo sulla propria spavalderia scenica. A suo agio nella scrittura acutissima di Ilo, marito di Zelmira e trasformato dalla regia in un malconcio reduce di guerra, il tenore Lawrence Brownlee: voce risonante grazie all’emissione sempre molto ben proiettata.
Fra gli altri interpreti svettava nel ruolo di Emma (personaggio qui ampliato con l’aggiunta di un’aria scritta da Rossini per la ripresa viennese) il mezzosoprano Marina Viotti, incisiva e coinvolgente anche sul piano scenico. Il basso Marko Mimica è stato un espressivo re di Lesbo, efficace nel dar corpo ai suoi tormenti. Leucippo, artefice degli intrighi e quasi una sorta di Jago, era interpretato dal basso-baritono Gianluca Margheri: ma ci si dimentica subito delle sue caratteristiche vocali perché, cantando sempre a torso nudo, appare proteso soprattutto a esibire i muscoli. Il piccolo ruolo del luogotenente Eacide era poi interpretato dal corretto tenore Paolo Nevi: le sembianze di angelo alato ne esaltavano la funzione salvifica nei confronti di Ilo.
Anche per quanto riguarda la gestualità, comunque, si è avuta l’impressione che ogni cantante si arrangiasse come meglio poteva, mancando una visione unitaria. O, meglio, indicazioni registiche consapevoli.

Giulia  Vannoni