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A canestro con la vita, il regalo più bello

Tutto ebbe inizio a Rimini. “Mi ero prefissato tre anni per verificare se il basket fosse la mia strada e il mio lavoro, altrimenti sarei ritornato sui miei passi. Incontrai Gianmaria Carasso, che mi convinse ad abbracciare il progetto Rimini”. Esattamente 40 anni fa, Alberto Bucci condusse l’allora Sarila per la prima volta in A2 e la pallacanestro divenne la compagna di una vita, capace di regalargli tre scudetti, due Coppe Italia e una Supercoppa Italiana. Membro della Italia Basket Hall of Fame e presidente della Virtus Bologna, Bucci sprizza cultura sportiva ma non parla solo di sport. E fa canestro con la vita.

40 anni fa la cavalcata che portò Rimini dalla serie D alla A2, per la prima volta nella sua storia.
“È stata un’avventura così unica che sono diventato riminese d’adozione. Ancora oggi abito a Poggio Torriana ed ogni giorno mi trovate qui a Marina centro e in città a incontrare persone, salutare amici, chiacchierare con colleghi”.

Oggi in A1 si può assistere ad una gara senza rintracciare un italiano nello starting five.
“Gli italiani nei roster della massima serie sono una eccezione. Scelta irreversibile? Non credo si possa tornare indietro. Però qualche correttivo in corsa è possibile realizzarlo. I premi della Federazione per le società che utilizzano giocatori italiani sono un incentivo ma occorre qualcosa di ben più importante”.

Bucci, Lei incontra spesso i ragazzi. E pone loro sempre una domanda.
“Qual è il regalo più bello che avete ricevuto dai vostri genitori? C’è chi risponde la vista, chi l’udito, chi la bicicletta nuova o lo scooter. Li lascio parlare, poi intervengo alla fine e li affido: il regalo più bello è la vita. Per questo non va buttata via sfrecciando sulle strade a 240 km/h per provare l’ebbrezza del brivido o ingurgitando alcol fino al coma etilico. La vita è il regalo più importante che riceviamo: averne consapevolezza aiuta già a guardare la realtà con occhi diversi”.

Da anni combatte con il tumore. Non solo non ne ha mai fatto mistero ma ha sempre affrontato diffusamente l’argomento.
“Non me ne vergogno. E perché mai dovrei farlo, non ho mica rubato nulla…
Convivo con le cellule impazzite da 7 anni. Saputa la notizia, ho pensato: Oddio muoio! Il pensiero è andato subito ai miei genitori, alla mia famiglia, agli amici e alle emozioni vissute in questi anni.
A cosa assomiglia la vita, ad una quercia, forte, oppure ad un fiore, che cresce, cambia colore, profuma e si spegne? È più importante la lunghezza dell’esistenza o la sua qualità? Tutti cerchiamo di vivere il più a lungo possibile, ma la qualità è decisiva”.

Sport e non solo. Nel 2006 è stato candidato sindaco alle elezioni amministrative di Rimini. Cosa ricorda di quella esperienza?
“Raccolsi il 40,2% di consensi in poco più di un mese, entrato in campo all’ultimo momento in sostituzione di Vittorio Taddei. Ero alla guida di una lista civica, e senza grande appoggio dai partiti per la verità.
Avevo idee ed ero affiancato da persone in gamba. Ho persino anticipato qualche sogno del sindaco Gnassi: il lungomare con le dune e i parcheggi sotterranei, ad esempio. E la nuova cartolina di piazzale Kennedy, oltre al lungomare solcato solo da auto elettriche.
Da Marina centro al centro storico. Rimini ha un centro commerciale storico da proteggere e rivitalizzare, incentivando il trasporto con navette, oppure il parcheggio gratuito pagato dai commercianti a chi spende più di una certa cifra”.

Lo rifarebbe?
“Avessi l’età giusta, tornerei in pista. Preceduto sempre dallo stesso motto: condividere. Mi reputo un padre che decide ma dopo aver ascoltato tutta la famiglia. Amministrare una città è possibile attraverso dialogo e responsabilità”.

Di cosa non dovremmo mai fare a meno?
“Delle emozioni. Basta rincorrere il successo a tutti i costi, è una chiave di lettura che rovina la vita.
Durante un corso di formazione per una grande azienda, un alto dirigente della stessa mi chiese di seguirlo in qualità di mental coach. Durante il percorso, l’ho invitato ad una passeggiata nel bosco al tramonto. Al ritorno, l’uomo è scoppiato in un pianto e ha ammesso: «Il lavoro mi ha portato via tanto, gli affetti, la famiglia, le relazioni, il tempo per me stesso». Una presa di coscienza che emozionò pure me”.

Guardare in faccia la realtà non è uno sport così praticato…
“Siamo abituati a cambiarci di abito in base alla situazione e con la stessa facilità diventare persone diverse. Tanti vestiti tante maschere: una al mattino in ufficio, una a casa e una alla sera.
Meglio vivere ciascuno la propria vita, essere libero e onesto con se stesso e con gli altri, e non recitare, perché prima o poi dimentichi la parte”.

Paolo Guiducci