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Ascoltare una rarità

Una scena d'insieme di Nozze istriane © Terre Piacentine

A Castell’Arquato è andata in scena l’opera di Antonio Smareglia su libretto di Luigi Illica Nozze istriane 

CASTELL’ARQUATO, 7 luglio 2023 – È stato il palcoscenico all’aperto di uno dei borghi medievali più belli del norditalia a ospitare l’opera di Antonio Smareglia Nozze istriane. La scelta di un titolo così raro è dettata da una ragione precisa: Castell’Arquato – località equidistante da Piacenza, Parma e Cremona – ha dato i natali nel 1857 a Luigi Illica, autore del libretto di questo ‘dramma lirico in tre atti’ e, da qualche anno (siamo alla decima edizione), è divenuta sede di un festival dedicato ovviamente al genius loci.

Il talento creativo del grande commediografo, giornalista e scrittore infatti non si è esaurito in alcuni immortali capolavori realizzati per Puccini, ma ha attraversato l’intera stagione verista: Illica ha legato il suo nome a compositori come Giordano, Mascagni, Catalani, Franchetti. È forse rimasta in secondo piano, invece, la sua collaborazione con Smareglia, compositore istriano – nato a Pola nel 1854 – esponente di seconda generazione di quegli operisti che credevano nella “musica dell’avvenire” (la prima era quella di Boito e di Faccio, con il quale si era formato). Capace di fondere in un’efficace simbiosi le suggestioni tardoromantiche di area slavo-mitteleuropea all’eredità wagneriana, oltre naturalmente a un’italianissima tradizione verista, Smareglia riesce a coniugare questi tratti, con buoni esiti drammatici, in Nozze istriane (1895); e c’è da esser grati a un grande uomo di musica come Gianandrea Gavazzeni, che – in veste sia di direttore che di saggista – a suo tempo riportò alla luce questo compositore ingiustamente dimenticato.

Il soprano Sarah Tisba (Marussa) e il mezzosoprano Giovanna Lanza (Luze) © Terre Piacentine

L’esecuzione proposta a Castell’Arquato, pur con gli inevitabili limiti che pongono gli spettacoli all’aperto, è riuscita a valorizzarne le caratteristiche. Jacopo Brusa (anche direttore artistico del Festival Illica), a capo dell’Orchestra Filarmonica Toscanini, ha puntato a valorizzare le ascendenze wagneriane della partitura, soprattutto nei passaggi solo strumentali, riuscendo – nello stesso tempo – a mantenere un efficace equilibrio con il palcoscenico. Poteva disporre anche di un apprezzabile cast, che ha avuto nel soprano Sarah Tisba una protagonista sempre sicura ed accorata nel rendere i tormenti di Marussa, innamorata di Lorenzo, e che il padre ha promesso in sposa a un ricco pretendente. Tuttavia il personaggio forse meglio costruito dell’opera è quello di Luze, una giovane povera, emarginata per aver avuto un figlio illegittimo. Il mezzosoprano Giovanna Lanza, molto espressiva nella sua aria, le ha saputo imprimere struggente malinconia e tenerezza: un effetto potenziato anche dall’idea di farla avanzare dalla platea in abito da sposa, prigioniera di quel sogno che non è riuscita a realizzare.

Lo scontro tra due voci gravi maschili – declinato di volta in volta in termini drammatici, comici, grotteschi – è sempre stato un topos operistico. Nozze istriane non vi rinuncia (la memoria più immediata qui sembrerebbe la scena di congiura tra Walter e Wurm nella verdiana Luisa Miller, arricchita però da fitti rimandi armonici wagneriani) e, anzi, trova nel duetto tra basso e basso-baritono il momento più efficace della partitura. A dar vita ai due personaggi sono stati Graziano Dallavalle, che con voce ben timbrata e ottima presenza scenica si è imposto nel ruolo del padre gretto e autoritario, propenso anche a ricorrere all’inganno pur di piegare la figlia ai suoi voleri, e Filippo Polinelli, suo degno complice: ora insinuante e ora viscido, incisivo nei panni del suonatore ambulante che vive di espedienti. Di mezzi più schiettamente lirici l’altro baritono, Francesco Samuele Venuti, disinvolto nei panni del marito scelto dal padre e che nel finale si trasformerà, quasi suo malgrado, nell’assassino del rivale Lorenzo. Ed è stato quest’ultimo, il tenore Giuseppe Infantino, l’anello più debole di un cast altrimenti ben a fuoco: penalizzato da una scrittura un po’ ai limiti delle sue possibilità, che l’ha portato talvolta a qualche sbandamento d’intonazione.

Il coro (preparato da Riccardo Bianchi) è apparso talvolta in difetto di compattezza, forse svantaggiato da un palco del tutto aperto, mentre un contributo decisivo spetta alla regia di Davide Marranchelli. Grazie anche alle scene e ai costumi di Anna Bonomelli, lo spettacolo si caratterizza attraverso i pochi oggetti icastici previsti dal libretto, come la statua della Madonna o il cestino di fragole di Luze, per connotare non tanto un’epoca quanto un’atmosfera. Dovendo fare i conti con le esigue dimensioni del palcoscenico, il regista riesce a espandere lo spazio dilatandolo all’intera Piazza del Municipio: utilizza così la platea per le entrate e le uscite, come pure le finestre del vicino palazzo per l’abitazione del padre. Suggestiva la presenza sulla torre del castello di una sposa biancovestita, una sorta di doppio della protagonista. Marussa infatti ha già indosso l’abito nuziale, quando assiste impotente all’uccisione dell’uomo che ama da parte di quello che dovrebbe diventare suo marito. Ancora un matrimonio che, come quelle di Luze, non si celebrerà mai.

Giulia Vannoni