Home Vita della chiesa Amato Ronconi: santo del Medio Evo… e dei nostri anni!

Amato Ronconi: santo del Medio Evo… e dei nostri anni!

Il 1200 è il secolo in cui molti laici avvertono che, nel mondo, possono condurre un’autentica vita cristiana; il secolo in cui si moltiplicano le opere assistenziali animate dai laici in favore dei poveri, dei pellegrini, delle prostitute, dei lebbrosi.
È la rivoluzione della carità, di grande peso in questo periodo. Tutti sono chiamati alla santità.
I laici, sensibilizzati dai predicatori della povertà di Cristo, divengono sensibili all’indigenza dei miserabili.
Vi è una fioritura di iniziative, in particolare le nuove ‘fondazioni ospitaliere’. Vedi gli ospedalieri di san Lazzaro, che curano i lebbrosi; altri che si dedicano alla costruzione di opere pubbliche (es. le costruzioni di ponti sul Rodano).
A fianco delle organizzazioni strutturate, non si contano le fondazioni isolate: case di Dio, ricoveri destinati a venire in aiuto ai poveri, ai malati.
Dunque, in questo secolo, le opere di misericordia, materiali e spirituali, sono per i laici lo strumento privilegiato di santificazione.

L’amore verso gli altri era nato, nel nostro mistico, dall’amore verso Dio.
Nel comando della carità, si passa immediatamente dalla carità verso Dio alla carità verso gli altri perché i due comandamenti sono intercambiabili: chi ama Dio non può non amare il prossimo; è conseguenza necessaria.
Nella realtà poi del Corpo Mistico, sunt idem: amare il capo e amare il corpo est idem. Tuttavia l’ordine dell’amore deve restare: prima Lui, poi i fratelli.

La povertà come purificazione dalla cupidigia.
Proprio dal convento di Monte Formosino, non lontano dalla sua casa, il giovane Amato ebbe l’impulso a vivere il vangelo nella genuina spiritualità francescana: amore di carità per il Cristo e per tutti gli uomini. La scelta della povertà, non come valore in sé, ma come purificazione dalla cupidigia che impedisce la vita gioiosa.
Per comprendere la sua preferenza di essere povero tra i poveri, è necessario mettere a parallelo le povertà di allora: i servi della gleba, il proletariato cittadino; e le nuove povertà: i tossicodipendenti, i barboni senza tetto, i nomadi, i baraccati che vivono e muoiono nei confusi agglomerati che stringono le metropoli. Si aggiungano le categorie del disagio (i disabili, gli handicappati), i giovani che fuggono dalle aree della fame e del sottosviluppo.
La scelta di Francesco d’Assisi e di Amato nel Duecento, è la medesima di madre Elisabetta Renzi, sua conterranea, nell’Ottocento; di madre Teresa di Calcutta nel Novecento; di don Oreste Benzi nei nostri anni: essere vicini ai più poveri tra i poveri, vivere accanto agli ultimi, ai minores, a coloro che non contano e non sono contati; accanto a coloro che la societas opulenta chiama i non integrati, ovvero gli sbandati sociali.

Per i poveri riserva tutta l’entrata dell’eredità paterna.
“Essendo egli ancor giovane si procacciava il vitto, andando a lavorar a prezzo, e tutta l’entrata dell’eredità paterna ogni giorno secretamente dispensava a’ poverelli” ( J. A. Modesti, primo biografo).
Illuminato dal Signore, ha scelto di essere agricoltore. Divide la sua vita, per così dire, a metà: tra preghiera pura in cui cessa ogni altra attività, e lavoro dei campi. Non solo contemplativo e non solo agricoltore.
Non lungi dal castello di San Laudicio, vi è l’abbazia di San Gregorio in Conca, uno dei tanti monasteri benedettini, diffusi in Italia e in tutta Europa, che, nella società decadente dell’Alto Medio Evo, avevano alimentato la santità cristiana. La preghiera, il lavoro agricolo o artigianale, lo studio, ritmavano la vita del cenobita benedettino: ora et labora.
Anche a Monte Orciaro, la preghiera, il lavoro dei campi, la penitenza, l’ospitalità, segnano la vita di Amato. La preghiera contemplativa nella solitudine dei campi o nel folto delle foreste dilata il suo spirito aperto ai puri effluvi della natura.

Per i pellegrini amplia la sua casa.
“Divisa che ebbe l’eredità paterna col fratello, andò ad abitare in una casa, la quale ora è detta l’ospitale del beato Amato, posta nella strada pubblica che da Rimini per Urbino portava a Roma, per poter più frequentemente alloggiar’ i poverelli” (J. A. Modesti, primo biografo).
Molti ‘romei’ che scendevano dal nord, arrivati a Rimini, proseguivano verso la valle del Conca e seguivano i sentieri che s’inerpicavano, fra il verde degli ulivi e dei boschi, verso il castello di San Laudicio. Da qui raggiungevano Urbino e poi la Flaminia che li avrebbe condotti nella città eterna.
Non è difficile immaginare con quale premura Amato li accogliesse, sollecito nel ristorare il loro corpo e nel confortare il loro spirito. Tutti ne erano ammirati per cui ad ogni momento il numero dei pellegrini aumentava.
La mamma aveva attribuito l’indole generosa del figlio alle elemosine che ella aveva fatto ai poveri quando di lui era incinta. Giacché questa buona mamma medievale era persuasa che l’educazione di un figlio inizia molti mesi prima che egli nasca.
I pellegrini chiedevano il pane della carità e l’alloggio per il riposo della notte. Amato porgeva l’acqua, oppure egli stesso lavava quei piedi gonfi e polverosi. Erano i piedi del Cristo.
Meditava, nel suo cuore, le parole che il Maestro aveva pronunciato dopo aver lavato i piedi ai discepoli. E Amato voleva essere vero discepolo del suo Signore. Dopo la lavanda dei piedi, somministrava il cibo necessario. E quando tutte le provviste erano esaurite, soccorreva il miracolo.

Mario Molari