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Alberto Marvelli: al servizio del bene comune

alberto marvelli

I giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in sé stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e compiranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica […].

Aderendo a questo appello di Pio XI, un papa che amava molto, nel 1946 Alberto fa la sua scelta: lascia la presidenza del circolo cattolico della parrocchia dei Salesiani, dove per anni si era impegnato come educatore e, rispondendo anche all’invito dell’amico Zaccagnini, sceglie la politica e accetta di candidarsi alle elezioni comunali, che si sarebbero tenute il 6 ottobre.

Una scelta sofferta, ma, la fa convinto che l’assistenza agli ultimi sia insufficiente e inadeguata se si interviene solo sugli effetti e non sulle cause della miseria e che solo attraverso l’impegno politico possono diventare prassi gli ideali di solidarietà e giustizia che la Chiesa va predicando; o, per dirla con Papa Francesco, “ è carità stare vicino ad una persona che soffre, ed è pure carità tutto quello che si fa […] per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza”.

Questa scelta era il traguardo di un discernimento di molti anni, sorretto dalla volontà di non arrendersi a ciò che il regime era andato proponendo.

alberto marvelliAlberto era nato l’ultimo anno della Grande guerra e aveva appena otto anni quando, nel 1926, il regime aveva fondato l’Opera nazionale Balilla, con lo scopo di curare “ l’educazione morale e politica dei giovani al di fuori della scuola, per preparare buoni italiani e perfetti fascisti”.

Da quel momento durante tutti gli anni Trenta, oltre agli scritti di propaganda e ai testi scolastici anche gli “innocenti” giornaletti per ragazzi, in maniera più o meno convinta, ora più goffa, ora più intelligente, avevano finito per dar voce agli ideali cari alla propaganda fascista: l’esaltazione dell’impero e della società idealizzata sotto il segno del fascio, il pregiudizio di classe e di razza – i “diversi” venivano sempre rappresentati come sanguinari o pasticcioni o sempliciotti – il livore anticomunista, la fascistizzazione della storia.

Perfino la stampa cattolica di questi anni sottolineava spesso gli aspetti di convergenza col fascismo, si mostrava d’accordo particolarmente con la campagna demografica voluta da Mussolini, manifestava la convinzione che il regime potesse “ svolgere un ruolo positivo nell’eliminare la conflittualità e il disordine propri dell’età liberale” realizzando nella pratica i principi della dottrina sociale della Chiesa, anche se insisteva ripetutamente sul fatto che a dettare i principi e le regole di comportamento doveva essere la Chiesa: “ La potestà di Gesù non può rimanere ristretta entro i confini troppo angusti dello spirito, ma deve espandersi dovunque, perché, percorrendo tutta la società […] apporti il seme ubertoso della tranquillità, della concordia, dell’ordine e della disciplina”.

Anche la guerra in Etiopia aveva esercitato un discreto fascino sul nazionalismo di stampo cattolico: doveroso è rispondere con vera consapevole prontezza agli ordini delle autorità; doverosa l’accettazione serena di ogni sacrificio” scriveva un settimanale locale.

Non c’è da meravigliarsi, dunque, se nelle pagine del suo diario anche Alberto aveva mostrato di vivere come una ingiustizia le sanzioni che la Società delle nazioni aveva comminato all’Italia in seguito a tale guerra.

Ma, dopo la condanna di Pio XI delle leggi razziali, di ritorno dalla Tre giorni di Mondragone Alberto aveva annotato sul diario (agosto 1938) la sua adesione incondizionata alle “ parole del santo padre sul razzismo”, aggiungendo la sua “ riconoscenza al Signore per averci dato un Papa così forte e deciso”.

Nonostante la dilagante propaganda fascista, in qualità di educatore di Azione cattolica e di animatore dell’oratorio salesiano, pur evitando uno scontro aperto col regime, aveva continuato a collaborare a dar vita a una contro-cultura, non gridata, ma non per questo meno incisiva, che al credereobbedire- combattere opponeva preghieraazione- sacrificio, radicando nelle coscienze modelli di uomo e di società molto diversi da quelli proposti dal regime: una diversa idea di “giovinezza”, di sport, di eroismo, di virilità, un diverso modo di pensare e vivere i rapporti con gli altri. Si era servito persino di una serie di barzellette, annotate diligentemente in un quaderno dalla copertina nera, che attraverso il riso intendevano smascherare gli aspetti più grossolani del linguaggio ufficiale, le innumerevoli goffaggini di chi teneva il potere, per scardinare, sia pur con una certa dose d’amaro, l’autorità del regime e puntare il dito, come nella fiaba di Andersen, contro “il re nudo”.

In uno dei Quaderni spirituali, Alberto aveva anche espresso una nota polemica contro le paramilitari: “Occorre che i giovani rivendichino esplicitamente il loro di diritto a santificare cristianamente il giorno del Signore; che la cura di irrobustire il corpo non faccia loro dimenticare la loro anima immortale; che non si lascino sopraffare dal male e cerchino piuttosto di vincere il male col bene; che quale loro altissima e nobilissima meta ritengano quella di conquistare la corona della vittoria nello stadio della vita eterna”.

Ma, quando Mussolini nelgiugno del 1940 annuncia l’entrata in guerra dell’Italia, la propaganda del regime è tale da non consentire posizioni contrarie. Pio XII aveva tentato di sostenere la necessità delle vie diplomatiche, affermando in modo accorato che “ nulla è perduto con la pace e tutto può esserlo con la guerra” e a Rimini il vescovo Scozzoli attraverso il bollettino diocesano aveva invitato i sacerdoti a diffondere le posizioni del Papa. Ormai si era giunti ad un punto tale che perfino la neutralità della Chiesa rispetto alle ragioni del conflitto era considerata una sorta di tradimento.

Forse inizialmente il clima aveva adombrato qualche entusiasmo nei confronti della guerra, ma Alberto già nel marzo del 1939 avvertendo dove mirava la propaganda se ne era detto molto preoccupato: “Penso alle giornate trascorse lassù ai Resinelli, alla serena pace da cui si era circondati, specie alla sera quando dalla finestra ammiravo la Grigna illuminata dalla luna: quale contrasto col momento burrascoso che attraversiamo, fra pensieri di guerra, di morte e distruzione. Ma l’unica guerra che noi dobbiamo desiderare ardentemente è quella per il trionfo del Bene, la distruzione del male. Gesù, morendo in Croce e risorgendo da morte, ha resa possibile questa vittoria luminosa e così necessaria per tutti gli uomini. Sforziamoci di collaborare con tutte le nostre forze a questa lotta, innalziamo le nostre preghiere ferventi a Dio ed alla Vergine santa, perché ci sostengano; siano più sincere in questa settimana, umili e generose”.

E nel 1941, quando era stato mandato al centro di addestramento a Trieste, era stato piuttosto polemico verso la vita militare e dubbioso sulla competenza di chi era al comando: “Qui la vita è sempre la solita, trascorsa tra istruzioni a piedi e qualche volta in autocolonna, in complesso però è un perditempo continuo, in quanto dopo venti giorni avevamo già imparato tutto ciò che è necessario, non per diventar sergenti, ma almeno capitani (a giudicare dal nostro). Vi sono dei momenti in cui non sanno proprio cosa farci fare, e ci trascinano da una camera all’altra senza decidersi a lasciarci almeno studio libero. Quante ore sprecate!“

Del resto, otto mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia, aveva profeticamente scritto nel suo diario: Quante vite che si sacrificano, quante giovinezze versano il loro sangue, quanti dolori che si rinnovano”..

In seguito, i rovesci militari, particolarmente la tragica ritirata in Russia, durante la quale era morto il fratello Lello, e l’inizio dei bombardamenti in Italia avevano fatto temere una disfatta definitiva e reso evidente che la guerra produceva solo rovine. Diventava sempre più sentire comune ciò che Alberto aveva scritto nell’agosto del 1943: “I recenti bombardamenti di Roma, Milano, Torino, Terni (povere città martoriate, quando finirà il loro martirio) sono tristi e dolorose conseguenze di tanti sbagli e di tanta incoscienza che dal 10/6/1940, per non andare più indietro, sono stati all’ordine del giorno. Ricostruendo la storia militare di questi tre anni di guerra, c’è da rabbrividire, nel pensare in mano di chi erano le sorti dell’Italia”.

( 1- continua)

Cinzia Montevecchi