Home Vita della chiesa Abitare la crisi, rivolti al futuro

Abitare la crisi, rivolti al futuro

Ci sono due parole che risuonano nell’aria in questo tempo : cambiamento e cammino sinodale.

Da più parti si sta proponendo una nuova visione di parrocchia. Ecco, una nuova visione. Senza una visione non ci può essere cambiamento. Io credo che ciò che è massimamente necessario oggi sia l’avere una nuova visione di Chiesa prima ancora che di pastorale.

Senza una visione non ci può essere cambiamento e senza desiderio non c’è visione. L’origine della parola “desiderio” è una delle più belle ed affascinanti.

Desiderare, nella sua radice latina, vuol dire avvertire una mancanza di stelle. Per estensione il verbo ha assunto anche l’accezione corrente di “sentimento di ricerca appassionata”. Infatti il desiderio esprime la presenza di una grande assenza.

I “desiderantes”, erano soldati che stavano sotto le stelle ad aspettare quelli che, dopo aver combattuto tutto il giorno, ancora non erano tornati. In questo senso quindi “desiderare” può anche significare “stare sotto le stelle ad attendere”. E in questa accezione il desiderio diviene… speranza.

Desiderare consente alla persona di guardare le stelle con attenzione, per trovare la rotta.

Sapere ciò che si desidera traccia la direzione da seguire. Un antico proverbio mediorientale recita: “ Se vuoi tracciare diritto il tuo solco attacca l’aratro a una stella”. I sentieri nuovi si tracciano seguendo una stella, il proprio desiderio, accogliendo l’infinito nel proprio finito.

Don Armando Matteo, teologo recentemente nominato sottosegretario alla Dottrina della fede, in un suo recente libro (Pastorale 4.0. Ancora) parla di ”follia della pastorale”. “ Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare sempre le stesse cose.

Sperare di ottenere risultati diversi, mettendo all’opera sempre i medesimi meccanismi, alla fine dei conti è un’autentica forma di follia.Unicamente chi è afferrato da una sorta di follia può immaginare di annunciare per la successiva stagione la vendita di fagioli (i risultati nuovi) mentre getta nella terra del suo campo la sementa dei piselli (le azioni di sempre).

La mentalità pastorale che governa la vita spicciola delle parrocchie non è più all’altezza della situazione. Per risultati diversi, occorrono azioni diverse; per azioni diverse, occorre una mentalità diversa”.

Da tempo Papa Francesco afferma che non siamo più nell’epoca del cambiamento, ma in un vero e radicale cambiamento d’epoca al quale non può che corrispondere un altrettando vero e radicale cambiamento di mentalità pastorale.

Nella sua enciclica, Evangelii Gaudium lo ha ripetuto chiaramente e con forza. “ Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno.

Ora non ci serve una ”semplice amministrazione” (25). “Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione (27)”.

Serena Nocenti, docente di teologia sistematica all’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Toscana , nei suoi interventi al Consiglio pastorale diocesano e alla comunità del diaconato di Rimini ha evidenziato la necessità non più rinviabile di questo cambiamento: “ Oggi, questo è un cambiamento possibile e dobbiamo sapere che la posta in gioco è la nuova forma di Chiesa che potrà essere generata da qui a cinque – dieci anni .

La scelta deve essere quella che ci ha indicato Papa Francesco vale a dire non sostituire struttura a struttura, ma promuovere processi nella direzione che riteniamo o intuiamo necessaria in modo tale che cambi contemporaneamente la mentalità e le strutture.

Perché non basta appellarsi al cambiamento di mentalità, alla conversione pastorale che è necessaria, ma bisogna che contemporaneamente questo cambiamento sia accompagnato da esperienze innovative che mostrino che è possibile cambiare e deve essere accompagnato da alcuni cambiamenti strutturali di tipo formativo, di tipo organizzativo, di tipo economico, di tipo di scelte pastorali che piano piano ci aiutino effettivamente e profondamente a cambiare mentalità”.

Ecco allora che prima di pensare a cosa fare è necessario pensare quale visione di Chiesa vogliamo attuare. Un cambiamento di mentalità, un processo di cambiamento che ha sei priorità.

1.  Se vogliamo cambiare dobbiamo ricominciare dal principio da cui tutto è generato nella Chiesa e da cui tutto riparte per un processo di riforma: l’evangelizzazione, l’annuncio, la prospettiva missionaria e i capitoli II e III della Evangelii gaudium riprendono questa ottica che è l’ottica del Concilio vedi Ad Gentes, Lumen Gentium, Dei Verbum, cioè ripartire dall’annuncio che ci fa Chiesa.

2. Se vogliamo entrare in una ottica del processo trasformativo, dobbiamo ripartire dai soggetti che fanno Chiesa.

Chi sono i soggetti? Sono tutti i battezzati. Questo comporta come dice il Vaticano II, ricollocare il ministero ordinato del vescovo dei presbiteri e diaconi nel popolo di Dio, nel gregge che sta camminando con il suo pastore, e non pensare tanto al ministro ordinato che sta davanti alla comunità, ma nella comunità prima di tutto, nel popolo di Dio, nella Chiesa locale particolare.

Per questo è fondamentale passare dalla collaborazione alla corresponsabilità. I laici non sono manovali, ma sono soggetti con i propri carismi con i ministeri e stati di vita.

3. Un punto cruciale è quello di cambiare le dinamiche comunicative nella comunità cristiana perché “ se manteniamo dinamiche comunicative del tipo unidirezionali cioè dal prete verso i laici, ma anche dal super specializzato operatore pastorale verso tutti gli altri, dall’adulto verso il bambino, dal centro parrocchiale verso la periferia, noi siamo ancora nel modello costruito dal concilio di Trento (1500).

Noi dobbiamo modificare la vita delle parrocchie a partire da dinamiche pluridirezionali. L’evangelizzazione non è trasmettere un messaggio lineare da chi sa a chi non sa oppure da chi conosce il Vangelo a chi non lo conosce perché questo non è il contesto evangelico, ma attivare dinamiche comunicative in cui insieme ascoltiamo il Vangelo cioè l’annunciatore e chi ascolta l’annuncio” (Noceti)

4. Se vogliamo ripartire dall’annuncio dobbiamo chiederci: a chi vogliamo annunciare? Attualmente le maggiori energie di una parrocchia sono dedicate ai bambini nella catechesi 7-14 anni e agli anziani che sono i praticanti abituali in larga misura. Dobbiamo privilegiare due gruppi particolari di vita: gli adulti e i giovani sapendo che la vita adulta non è tutta statica e stabile come era nella società cristiana fino ad oggi, ma la vita adulta passa attraverso fasi diverse che richiedono proposte pastorali differenziate per età.

La vita in famiglia, la vita professionale, la persona nel pieno della maturità, prima e dopo la crisi di mezza età che è una crisi fondamentale per l’adulto.

5. Un altro aspetto è quello della Chiesa multilocata vale a dire una Chiesa che è nelle case, nei luoghi della vita. Per gli operatori pastorali questo comporta una prossimità, una volontà di aprire la propria casa per accogliere nel luogo della casa l’ascolto del Vangelo, comporta la capacità di avere linguaggi non stereotipati o dottrinali perché agli operatori laici viene richiesta la capacità di articolare l’annuncio del Vangelo a partire dalle situazioni della vita e quindi laici e laiche, sono le persone che più di ogni altre possono aiutare il clero, cioè vescovi e preti, a comprendere le istanze, le sfide della quotidianità, perché la quotidianità deve tornare al centro del nostro vivere.

6. Allora, le dinamiche trasformative vanno nella logica della pluriministerialità; abbiamo bisogno di più tipologie di ministeri laici. Nella logica della valorizzazione delle competenze esistenziali e professionali dei laici. Ad oggi noi, in una parrocchia tipo, cosa facciamo?

Ci inventiamo un’attività e andiamo alla ricerca di persone di buona volontà tra quelle che conosciamo. Dobbiamo anche qui interrompere una pratica abituale. Non partire dalle attività pastorali per andare alla ricerca delle persone, ma fare il contrario.

Si deve partire dalla consapevolezza che lo Spirito Santo ha già dato loro nel Battesimo carismi per l’utilità comune e per l’edificazione della Chiesa. E quindi, la domanda ad ogni persona è: qual è il carisma, il dono, la competenza, l’esperienza di vita che questa persona ha e che è necessaria per la comunità? Questo diventa l’attivazione di un coinvolgimento responsabile anche di coloro che sono più ai margini della vita della comunità.

Senza visione non vi può essere cambiamento e ogni scelta pastorale, per quanto buona sia, rischia di essere una “pezza” nuova su un vestito vecchio.

Un’assenza di decisioni strutturali rischia di essere la peggiore delle decisioni.

Ora è il momento nel quale interrogarsi su quale Chiesa vogliamo essere; ognuno di noi che cristiano vuole essere; che tipo di soggettività e di appartenenza alla comunità vogliamo vivere. È il momento di iniziare un processo di cambiamento. Se non ora quando?

diacono Cesare Giorgetti