Un ex detenuto, alcuni volontari, educatori di comunità. Sono loro a “zittire” la sala. Un silenzio gravido di attesa mentre questi testimoni prendono la parola.
Salgono sul palco della Sala Manzoni, a Rimini: sono tra i protagonisti dell’incontro “Giustizia riparativa e riabilitativa”, organizzato dal Progetto Culturale della Diocesi di Rimini. C’è un relatore, il prof. Luciano Eusebi, docente di Diritto Penale all’Università Cattolica di Milano, il cui intervento è accompagnato dalle esperienze dal carcere (a cura della Pastorale Carceraria della Diocesi di Rimini) e della CEC, la Comunità Educante con i Carcerati, proposta della Papa Giovanni XXIII.
La paura di non essere riconoscibili
Un uomo – coinvolto in un incidente stradale che ha segnato più vite della sua, scalfito dal carcere e dalla paura di non essere più “ riconoscibile” – ha raccontato il proprio percorso, iniziato come un “ atto dovuto, un passaggio tecnico della riforma Cartabia”. Con il tempo, però, ha intuito che qualcosa dentro di lui stava cambiando: “ Ho capito che dovevo vedere il mio errore dal punto di vista di chi l’aveva subito”.
Una frase semplice, ma per molti quasi impossibile. Eppure è lì che avviene il mutamento: quando il colpevole smette di essere il centro della scena e la vittima torna ad avere un nome, un dolore, una voce.
Reato senza sangue ma con vittime
Vergogna: è la parola chiave che ha segnato la vita di un altro testimone. Ex detenuto per bancarotta fraudolenta, un reato “ senza sangue”, come ha detto con voce rotta, “ ma non senza vittime”.
Ha raccontato il lungo e difficile cammino di consapevolezza interiore.
“ Non avevo una vittima specifica, il mio era un reato contro la collettività, contro la società tutta. Poi ho focalizzato, mi sono accorto che avevo messo in ginocchio famiglie, risparmi, persone che si fidavano di me”. Con questa consapevolezza arriva la svolta: “ Ho capito che non ero io quello che soffriva di più dietro le sbarre. Questo mi ha demolito. La giustizia riparativa ti costringe a non scappare, a guardare negli occhi il disastro che hai creato”. Ha detto di aver provato una vergogna “ che brucia, ma che fa crescere”: una vergogna diversa da quella sterile del processo e del carcere. “ Quella ti schiaccia. Questa, invece, ti apre gli occhi. E ti fa capire che chiedere perdono non è un’umiliazione, ma un atto di verità”.
Può nascere un desiderio di riparare?
Glauco Melandri è un operatore, lavora sul campo.
Vicepresidente della CEC (Comunità Educante con i Carcerati) di Coriano, ha confermato quanto sia difficile far emergere questa consapevolezza: “ Quando arrivano, sono schiacciati dal senso di colpa, dal dolore, dalla paura. Il primo passo è dare loro strumenti per leggere quello che è successo. Solo dopo nasce il desiderio di riparare”.
Melandri spazza via una falsa credenza, quella secondo cui la comunità sarebbe la via più comoda: c’è, infatti, chi preferisce tornare in carcere, perché è più semplice, perché lì nessuno ti chiede davvero niente. “ Le comunità educative e terapeutiche, ispirate al modello brasiliano APAC (dove la recidiva scende fino al 10-15%) – spiega – chiedono invece un impegno profondo: lavorare, studiare, confrontarsi, rispondere delle proprie azioni. Crescere”.
È una strada più dura, ma più umana. E funziona: la recidiva (quando un soggetto che ha già commesso un reato, banalmente, ne commette un altro dello stesso tenore) si abbassa dal 70 al 10-12%, le persone cambiano, nascono percorsi sinceri di responsabilità. “ Non è magia, non è buonismo: è l’essere umano che cresce quando qualcuno lo chiama per nome, e non per numero di matricola”.
Spezzare il circolo vizioso
Concorda anche Eusebi: la giustizia riparativa è la risposta capace di interrompere realmente le catene della criminalità. “ Se non offriamo futuro, non spezziamo nulla”.
È questo, in fondo, il cuore della giustizia riparativa: l’idea che la giustizia non sia una punizione che chiude, ma un incontro che riapre.
Che la verità serva a liberare, non a schiacciare. Che persino nelle ferite più profonde possa sorgere una relazione nuova. È una via esigente, controcorrente, ma reale. Ed è l’unica capace di restituire alle persone un volto e alla società un futuro. È la via della giustizia che ripara.

