Oggi la morte è la grande esclusa. È ammessa solo nelle rappresentazioni spettacolarizzate, ma è rimossa dalla vita quotidiana. L’immagine della morte è diventata – dal sorgere del consumismo – qualcosa che contrasta con l’antropologia consumista dell’usa e getta, perché la morte pone un limite.
E il limite dà valore alle cose, al tempo, alla vita delle persone. Il consumismo può esistere solo sottraendo valore a tutto questo. C’è quindi, a mio avviso, una stretta coincidenza tra il dominio del consumismo e l’esclusione della morte. Occorre tornare a parlarne ed è urgente farlo, con gli strumenti giusti. Non parlarne non ci rende più sereni: ci costringe solo a convivere con fantasmi. Il carpe diem autentico funziona solo se l’attimo ha valore, e il valore nasce dal limite. I bicchieri usa e getta sono tali perché sono illimitati. E così finiamo per trattare la nostra vita allo stesso modo. Siccome ci illudiamo che sia illimitata, buttiamo via pezzi di vita essenziali e non ne godiamo per ciò che conta: le relazioni, la cura, l’amore per le persone. Parlare della morte significa imparare a guardare la vita da un altro punto di vista, riconoscendo la persona nella sua totalità – corpo, psiche e spirito.
E così che si riconcilia la morte con la vita, perché la morte non è il contrario della vita.
San Giovanni dice: “ Chi non ama rimane nella morte”. L’opposto della vita non è morire, ma non amare. La morte fisica è parte della vita, ne è un fenomeno interno: come il sole che tramonta e poi risorge, il bosco che muore in autunno per rinascere in primavera, o il bambino che ‘muore’ per diventare adolescente.
La vita si rigenera passando continuamente attraverso piccole morti. Parti non essenziali di noi muoiono: ciò che conta davvero è immortale.
Per fare un esempio, gli hospice sono nati dal pensiero e dall’intuizione di un’infermiera inglese, Cicely Saunders, cioè che siamo fatti sia di corpo sia di spirito – e in sé rappresentano una visione di cura esportabile a tutta la medicina, non solo alla cura sanitaria del fine vita. Quell’approccio dovrebbe essere applicato ogni volta che c’è una malattia grave, perché se affronti la sofferenza dal punto di vista sia fisico, che psichico e spirituale, tratti chi soffre come un essere umano nella sua interezza. Se lo vedi invece solo come un corpo non ti stai prendendo realmente cura di quella persona, che è un’unità di più dimensioni. L’hospice nasce per offrire questa possibilità di cura integrale. Un accompagnamento davvero integrale è una grande sfida, e anche una necessità urgente: che tutti gli italiani possano avere cure palliative integrali, cioè che, quando la malattia è grave, siano abbracciati nel corpo, nella psiche e nello spirito. Ma di questo parleremo.
Guidalberto Bormolini

