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La mistica della tonaca lisa

Centenario. Il libro di Elisabetta Casadei sul cammino spirituale di don Oreste Benzi. Dal vivere per Cristo, al vivere con Cristo, al vivere in Cristo

Con i santi non si scherza.

Lo ha detto, con parole mordenti, proprio lui, quel santo prete – anzi, meglio, quel prete santo – che è stato il Don: “ Con i santi è una grande fatica stare, si sta meglio con i peccatori! Fra peccatori ci si capisce, con i santi è difficile intendersi”.

Eppure una sorella di casa nostra – la prof. Elisabetta Casadei, postulatrice nel suo processo di beatificazione tuttora in corso – ci ha provato e ci è riuscita in modo avvincente, nitido, convincente, con questo libro, bello come una distesa punteggiata di stelle alpine, vivo e intenso come una icona bizantina. E’ vero: la vita del Don si può paragonare anche a una miniera ricca di filoni d’oro.

E’ una immagine che prendo a prestito dal primo successore del Don, nella carica di Responsabile Generale dell’APG23, Giovanni Paolo Ramonda. Bene: molta di quella stupefacente ricchezza è stata accuratamente travasata dall’Autrice nel suo arduo, proficuo lavoro.

Tre rischi fatali per biografi e agiografi

Ma, procediamo subito dando… i numeri: il libro è costato ben tre anni complessivi di lavoro, tra ricerche, analisi, prime stesure e successive, rigorose riletture, e con l’esplorazione attenta e minuziosa di oltre diecimila pagine di documenti. La sintesi finale ha fruttato la bellezza di 328 pagine finemente composte e scrupolosamente documentate, con la somma stratosferica di 772 note a piè di pagina. Non vorrei, però, fare un cattivo servizio ai lettori, contagiando la penosa sensazione di un libro pedante e pesante.

Tutt’altro: il libro si presenta leggibile, attrattivo, grintoso e però pienamente godibile, proprio a immagine e somiglianza di colui di cui si parla.

Ma, prima ancora, mi corre l’obbligo di spiegare perché a mio avviso è difficile parlare, e ancor di più, scrivere di un santo. Perché si corrono fatalmente tre grossi rischi.

Il primo è quello del perfettismo.

Non si parlava fino a qualche anno fa della ricerca della santità come dell’anelito di un poveruomo alla “perfezione evangelica”? Certo, ma il santo non è un tipo perfetto, nel senso di un soggetto immacolato e incontaminato, come un cavaliere medievale “senza macchia e senza paura”. E’ un uomo che non è nato santo e che fino alla morte deve fare i conti con limiti e difetti, deve misurarsi con tentazioni e tentennamenti, non può smarcarsi da aridità e penose oscurità. La nostra Casadei non ci pennella affatto un don Oreste esente da debolezze e immune da incresciose fragilità. Anzi ne stende in agrodolce un elenco dettagliato e quasi divertito. Ce lo racconta come “ egocentrico, infantile e superbo”, come “intransigente e accentratore”, sanguigno e orgoglioso”, testardo e ostinato”, “ impulsivo, impetuoso e indelicato”. Ma non devia mai lo sguardo dai suoi pregi e virtù: “ rivoluzionario e sempre in progress”, un cuore grande” senza fondo e senza sponde, “non si lascia dominare dal proprio io”, sa incassare molto e “ sa chiedere scusa”, riesce a cambiare idea, ad esempio sulle donne. Conclusione autobiografica: dunque, santo? e perché no? ma “ come un bufalo lanciato in discesa”.

Gigantismo e moralismo

Un secondo rischio, nel tentativo di schizzare

il ritratto di un santo, si potrebbe classificare come gigantismo. In pratica è il pensare ai santi come a delle persone arrivate ad una altezza tale che per noi, poveri mortali e miserabili peccatori, risulta proibitiva e del tutto inarrivabile.

Niente affatto. Anzi quella mitica misura risulterebbe buona solo a farci sentire dei mediocri nanetti, che mai e poi mai riuscirebbero a superarsi di un palmo.

Anche questo rischio è stato egregiamente oltrepassato dal Don e, di conseguenza, dalla sua fedele interprete, la Casadei.

Don Oreste ha percorso un cammino di santificazione non basandosi sulle sue forze, ma perché ha preso sul serio la chiamata universale alla santità e si è abbandonato alla grazia, ossia all’amore infinitamente generoso e incondizionatamente gratuito di Dio, connesso indissolubilmente a quella chiamata.

E veniamo a un terzo rischio, strettamente legato ai due precedenti, e, come quelli, puntualmente bypassato dalla Casadei: il rischio del moralismo.

La santità evangelica o ‘perfezione’ cristiana non è la superba ostentazione di una propria severa, inflessibile moralità. E Cristo non può essere ridotto a ‘buon esempio’, a modello altissimo, ma esteriore e lontanissimo, da ricalcare al dettaglio, a colpi di buona volontà e a costo di sforzi stressanti e di spossanti patimenti. La santità è una grazia che Dio fa a tutti, per cui tutti possiamo fare, né più né meno, la stessa esperienza dei santi, nel nostro caso, di questo “infaticabile apostolo della carità” (Benedetto XVI). Sorseggiamo le sue parole: “ Non dobbiamo cercare la perfezione, ma cercare il Dio della perfezione”.

E ancora: “Dobbiamo toglierci dall’idea del mito, cioè dal pensarci persone che vincono la sofferenza, che tengono i denti stretti, persone che resistono. No, non è quella la visione di santità: santa è invece la persona unita al Signore. E, in quella unità profonda col Signore, c’è tutto: ci può essere la paura, l’ansia, l’angoscia, la tristezza fino a morire”. Quindi, per il Don, la santità è tutta questione d’amore: amore donato dal Dio-Amore, ricambiato da noi, chiamati e adottati quali veri Figli del Padre-Abbà. Un amore condiviso tra di noi e con i Fratelli poveri, sofferenti, scartati ed emarginati.

Il pellegrinaggio dell’Amore

Dopo aver tratteggiato, nella prima parte del libro, il profilo umano e cristiano del Don, nella seconda parte la Postulatrice passa a delineare le tre tappe del cammino dell’Amore.

La prima è vivere per Cristo.

Per quasi 35 anni di sacerdozio, don Oreste è stato affascinato più dell’ideale del sacerdote che non della persona viva di Cristo, il Pastore bello, il sommo ed eterno Sacerdote.

Detto con le sue stesse parole: il giovane Don era affascinato “ più del lavoro che non del datore di lavoro”.

Il rischio allora è quello di ridursi a fare il facchino di Gesù Cristo, il quale però non ci vuole affatto portabagagli, ma innamorati di lui.

Ma attorno al 1989, ecco la seconda tappa del cammino dell’amore: vivere con Cristo. Gesù è allora il compagno di viaggio, il suo sguardo s’incontra con il nostro, la sua mano ci sostiene con forza e con amore.

E’ l’amico che vive in noi, con noi, per noi, e che noi ricambiamo vivendo con lui, in lui, per lui”.

Infine, quando sta per varcare la soglia dei 70 anni, la sua vita spirituale fa un altro scatto in avanti.

È il salto definitivo: vivere in Cristo.

È quanto ha sperimentato san Paolo: “ Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Allora si fa l’esperienza della preghiera trasformante: “ come una stoffa nell’acqua: così immerso in Cristo divento tutto Cristo, pur rimanendo me stesso”. Allora si vive la perfetta letizia e non si distinguono più i momenti belli da quelli dolorosi.

Allora si sperimenta la speranza mistica: “ la morte non esiste, perché appena chiudo gli occhi a questa terra, mi apro all’infinito di Dio”. Sono parole che abbiamo ritrovato – c’ero anch’io – in Pane quotidiano, la mattina del 2 novembre 2007, quando ci siamo stretti attorno alla sua salma appena composta, e abbiamo letto queste parole, da lui scritte profeticamente tempo addietro. Appunto, in vista della propria morte.

Una domanda ineludibile, anzi due

Don Benzi è stato una persona semplice – che non ha mai giocato a fare il personaggio – ma anche ricca e complessa. E’ stato fondamentalmente un prete-parroco.

Ma ha operato anche nel sociale. E’ stato promotore della dignità dei diritti di folle di poveri: disabili, nomadi, profughi, immigrati, prostitute (che lui giustamente chiamava prostituìte), tossicodipendenti, carcerati… Ha creato tantissime case-famiglia.

Ha cercato di “portare il vangelo in politica”, senza pendolare tra destra e sinistra. Ha scritto una lettera aperta a Berlusconi per creare il ministero della Pace, e oggi – oso pensare certamente non avrebbe promosso o partecipato a standing-ovation né per la Meloni, né per la Schlein. Ha avviato la rivoluzione della “ società del gratuito”.

Viene quindi da chiedersi: ma qual è stato il baricentro della sua esistenza? La nostra Elisabetta Casadei non ha dubbi: è stata la sua anima mistica. Non che il Don abbia goduto di fenomeni mistici straordinari, come visioni, estasi, locuzioni e bilocazioni. Anima mistica significa cuore innamorato di Cristo. Significa lasciarsi abitare dal Mistero. Significa vedere e toccare la carne di Cristo nella carne dei poveri. Basti, tra le tante questa citazione: “ Non ho mai visto gente tanto impegnata in terra quanto coloro che vivono in Cielo, pur vivendo su questa terra”. E questo, lui, non lo ha solo detto. Ma lo ha vissuto per primo.

Un’ultima domanda: qual è dunque il pregio del libro della Casadei?

A mio avviso, questo: non solo ha parlato a noi di don Oreste, ma ha fatto parlare lui a noi. E lo ha fatto con una penna che scorre dritta e pulita, marcata e sempre puntuale e profonda.

Un libro da non perdere.

Francesco Lambiasi