Al Festival di Caracalla due opere del grande repertorio affidate a registi dissacratori
ROMA, 22 e 23 luglio 2025 – Nei festival musicali si vorrebbero vedere quei titoli che, di solito, non vengono inseriti nelle consuete programmazioni di stagione, orientate secondo bussole ben più tradizionali. In alternativa, può andar bene anche il repertorio più collaudato, ma proposto in versioni innovative o persino dissacranti. Il Caracalla Festival, emanazione estiva del Teatro dell’Opera di Roma, quest’anno è riuscito a coniugare entrambe le esigenze, con un ecumenismo che si manifesta fin dalla scelta degli spazi: i resti della basilica di Massenzio, utilizzata in passato solo a scopi sinfonici, e un luogo carico di memorie operistiche come le Terme di Caracalla.

Il direttore artistico del festival Damiano Michieletto – cui il teatro romano ha delegato la programmazione – ha scelto per l’apertura La resurrezione, uno degli oratori romani scritti da Händel, affidandone la regia alla giovane Ilaria Lanzino, che ha svolto a tutt’oggi la sua carriera interamente all’estero. Il secondo titolo – popolare, ma extraoperistico – è stato invece West Side Story di Bernstein, del quale lo stesso Michieletto ha firmato la regia. A queste due partiture ne ha poi abbinate due del grande repertorio: nella cornice più raccolta di Massenzio, Don Giovanni, mentre – nel più ampio spazio delle Terme – l’immancabile Traviata: fra le opere più gettonate a Caracalla dal 1937, anno in cui nacquero queste stagioni estive. Ma, per ristabilire l’equilibrio con l’innovazione, ha scelto due registi che fossero garanzia di trasgressione, sebbene pressoché sconosciuti da noi.
Sold-out ad ogni recita, con un pubblico eterogeneo, che ha richiamato melomani tradizionali e neofiti (spesso dei veri e propri parvenu, che ignorano anche quelle regole minime del galateo dello spettatore, ma pazienza…), attratti dalla possibilità di trascorrere una serata diversa dalle altre. Servirà ad allargare la platea, con ricadute sulla stagione invernale? Difficile prevederlo, anche se gli esiti di Traviata rappresentano una scommessa vinta alla grande.
Innanzi tutto la vicenda di Violetta è di una potenza tale da riuscire a coinvolgere emotivamente qualsiasi tipo di pubblico. Al di là di questo, si trattava di un’esecuzione musicale di gran pregio: caratteristica capace di mettere d’accordo gli spettatori più esigenti con quelli che incrociavano Verdi per la prima volta. Da non sottovalutare, poi, il contributo della regista slovacca Sláva Daubnerová – al suo debutto operistico in Italia – che è riuscita a illuminare con uno sguardo dolorosamente femminile una vicenda popolarissima, spogliandola da qualsiasi allure romantica. Nella scena di Alexandre Corazzola c’è adagiato solo un gigantesco mezzobusto femminile acefalo – citazione di un’opera della scultrice Camille Claudel – che, con un bel colpo di teatro, nel terzo atto si spalanca, aprendosi su una camera da ospedale: dunque, quella sigaretta tenuta fra le dita dalla monumentale statua sembra esplicitare le cause della malattia che consumerà Violetta fino alla morte. Il duetto con Germont, con cui la protagonista avvia il proprio annientamento, viene contrappuntato da un’asta – resa ancor più crudele dal fatto che i partecipanti sono i suoi vecchi amici – che la porterà a spogliarsi delle sue proprietà: una scena potentissima, capace di rendere del tutto evidente la volgarità mortifera del denaro, proprio come a Verdi stava a cuore sottolineare in quest’opera. Germont, dal canto suo, indossa una redingote (costumi di Kateřina Hubená) dello stesso colore del fondale, che enfatizza il conformismo delle sue pretese: sono solo dettagli, ma nell’insieme in grado di definire una cornice in cui emerge una tragica idea di solitudine.
Le idee veicolate dall’allestimento non sarebbero state sufficienti, però, se non ci fosse stato un versante musicale altrettanto solido. A cominciare da una splendida protagonista come il soprano Corinne Winters: sempre appassionata e vocalmente impeccabile, dal brindisi iniziale all’Addio del passato conclusivo. Passano così in secondo piano anche una certa rigidità nel fraseggio del baritono Luca Michieletti, come pure le disomogeneità nel canto del tenore Piotr Buszewski. Fondamentale, poi, il contributo del direttore Francesco Lanzillotta, artefice di una lettura senza tagli (cabalette comprese). Ben corrisposto dall’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, cui ha impresso tempi sempre sostenuti, la sua concertazione è apparsa immune da qualsiasi appiattimento, grazie alla notevole elasticità e un’incessante varietà dinamica.
Peccato, invece, che non abbia funzionato allo stesso modo il Don Giovanni messo in scena dal quarantaduenne regista moscovita Vasily Barkhatov, “enfant terrible” del palcoscenico internazionale. Come antefatto, s’inventa un protagonista che da bambino uccide, senza averne l’intenzione, il padre violento durante un giro in luna-park. Il Commendatore acquista così le fattezze giovanili del genitore ucciso (laddove il protagonista lo troviamo in scena ormai anziano), mentre l’ottovolante si trasforma nella porta che traghetterà il grande seduttore verso l’inferno.
L’idea si presenta abbastanza discutibile, perché trovare giustificazioni psicanalitiche al mito – e tale è quello di Don Giovanni – appare una inutile forzatura. Serve poco, allora, “mettere i baffi alla Gioconda”: tanto più che altri hanno saputo farlo meglio.
Giulia Vannoni





