Oltre il riarmo. La Comunità Papa Giovanni XXIII fa il punto sul reale impatto di guerre, industria militare e nuove politiche internazionali mondiali ed europee
Si vis pace, para bellum, se vuoi la pace, prepara la guerra, dice il detto latino che negli ultimi mesi sembra animare la volontà di riarmo delle politiche europee.
Del resto l’Unione ai suoi confini ha il conflitto ucraino-russo, scaturito dall’invasione russa del 24 febbraio 2022. Poco distante, l’attacco spietato di Israele alla Palestina, come risposta dell’attacco atroce di Hamas ai kibbutz del 7 ottobre 2023. E tanti altri conflitti si potrebbero citare.
Può esserci un’alternativa efficace al riarmo? Se ne è parlato qualche giorno fa nel webinar Oltre il riarmo: alternative possibili proposto dall’Ufficio servizio civile e pace dell’Associazione Papa Giovanni XXIII.
“Se vuoi la pace prepara la pace”, diceva capovolgendo il detto latino don Primo Mazzolari, intendendo come la pace sia qualcosa da costruire non dopo la guerra, ma una partita da giocare anche durante i conflitti e soprattutto prima. La pace si prepara in tempo di pace e conviene.
Preparare la pace è da sempre una delle vocazioni dell’Apg23
“Nel 1972 venne approvata la legge che disciplinava formalmente l’obiezione di coscienza. Il 13 maggio 1975, cinquant’anni fa, la Comunità Papa Giovanni XIII firmava la convenzione con il Ministero per accogliere i ragazzi che sceglievano il servizio civile alternativo al servizio militare”, ricorda Giuseppe Piacenza, responsabile Pace della Comunità. Due tappe miliari nella storia del movimento originato da don Oreste Benzi, che ha aderito alla Rete italiana pace e disarmo e che vanta al suo interno anche la presenza di Operazione Colomba, il corpo nonviolento di promozione della pace presente con i suoi volontari in diversi luoghi di conflitto nel mondo.
Non solo stop al riarmo: occorre andare oltre
“Di riarmo sentiamo parlare ormai quotidianamente, ma solo in una certa maniera”, ci ricorda Laura Foscoli, dell’Ufficio servizio civile e pace di Apg23. “ Siamo abituati a sentire parlare di riarmo come di una necessità. Noi vogliamo offrire un punto di vista differente. Darci degli strumenti per comprendere meglio la situazione e soprattutto dirci cosa noi cittadini possiamo fare. Abbiamo usato nel titolo del webinar “oltre il riarmo” e non “contro il riarmo” non perché noi non siamo contro. Oltre a dire in modo chiaro il nostro no, vorremmo anche puntare sulle alternative, cioè guardare oltre”.
Il riarmo ci rende più sicuri?
“ Il riarmo italiano, europeo e globale non nasce con l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022. Quell’evento ha rappresentato un’accelerazione, una giustificazione, ma il processo era già in corso”, spiega Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo. “I dati del Sipri (l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma) ci dicono che nel 2024 le spese militari mondiali hanno raggiunto i 2.718 miliardi di dollari. Si tratta non solo dell’acquisto di armamenti, ma anche del mantenimento degli eserciti, delle strutture, degli stipendi, delle basi. Studio questi temi da oltre vent’anni e posso dire che non mi aspettavo di arrivare già nel 2024 a una cifra simile. Sapevo che avremmo superato i 2.600 miliardi, ma non immaginavo una crescita così marcata”.
Dall’inizio del millennio, 2000-2001, la spesa militare mondiale “ è più che raddoppiata. All’epoca eravamo intorno ai 1.200 miliardi. La crescita è stata costante, salvo una breve pausa tra il 2008 e il 2012 dovuta alla crisi finanziaria globale. Tuttavia, nonostante questa crescita inesorabile, il mondo non è diventato più sicuro. Oggi abbiamo più guerre, sia in termini di numero di conflitti attivi sia per il loro impatto: non si tratta più di conflitti locali, ma spesso di guerre su larga scala. Abbiamo anche più vittime civili. I dati più recenti parlano di circa 250.000 civili uccisi da violenza armata in contesto di guerra nel solo biennio 2023-2024: un livello che non si registrava dal genocidio del Ruanda del 1994”, sottolinea Vignarca.
Un “cattivo affare”
“ Negli ultimi dieci anni, la spesa in armamenti è cresciuta del 132%, anche tenendo conto dell’inflazione. Nello stesso periodo, il PIL italiano è aumentato solo del 9% e l’occupazione del 4%. È quindi evidente che l’aumento della spesa militare è del tutto fuori scala”. Lo fa notare Sofia Basso, giornalista di Greenpeace. “ Se andiamo a confrontare con altri settori, ad esempio l’istruzione, vediamo che in dieci anni le spese in questo ambito sono aumentate solo del 3%. Le spese militari complessive, invece, sono cresciute del 26%, considerando non solo le armi ma tutto il comparto. La spesa per la salute è aumentata del 13%, soprattutto a causa del Covid, altrimenti non avrebbe raggiunto neanche questo livello. La spesa per la protezione ambientale, nonostante la crisi climatica in corso, è cresciuta solo del 6”, commenta Basso. “ Se si investono mille milioni di euro in armi, il ritorno economico è intorno ai 750 milioni. Ogni euro speso genera quindi solo 75 centesimi di ritorno. Al contrario, lo stesso investimento nell’istruzione genera un ritorno di quasi 1.200 milioni, e se investito nella protezione ambientale arriva fino a 1.900 milioni. Anche dal punto di vista occupazionale la differenza è netta. Con 1.000 milioni spesi in armi si creano circa 3.000 posti di lavoro. Con lo stesso importo investito nell’istruzione si generano circa 14.000 posti. Anche la sanità e l’ambiente mostrano dati molto superiori. Quindi, investire in armi non è solo moralmente discutibile, ma è anche un cattivo affare economico”.
Ma allora chi ci guadagna?
“Ne beneficia soprattutto l’industria bellica. Se confrontiamo i bilanci delle prime dieci aziende italiane esportatrici di armi tra il 2021 (anno prima dell’inizio della guerra in Ucraina) e i due anni successivi, vediamo che nel 2022 i loro utili netti sono cresciuti del 68% e nel 2023 del 45%. Complessivamente, nei due anni di crescita della spesa militare, il settore ha guadagnato 830 milioni di euro in più rispetto al 2021”, continua Basso.
Il riarmo fa male anche all’ambiente
“È difficile fare stime precise, perché il settore militare non è obbligato a rendicontare le proprie emissioni di CO2. Tuttavia, secondo alcune ricerche si stima che le emissioni globali del comparto militare superino quelle del Giappone e siano circa il doppio di quelle del trasporto marittimo o equivalenti a 600 milioni di auto o 500 milioni di voli transatlantici. Sono persino tre volte superiori alle emissioni dell’aviazione civile”, spiega Basso. “ A questo va aggiunto l’impatto ambientale diretto delle guerre: basti pensare a Gaza, dove l’ambiente è stato completamente distrutto e serviranno decenni per riparare i danni. Inoltre, c’è sempre stato un legame stretto tra guerra e fonti fossili: molte guerre sono state fatte proprio per il controllo del petrolio o del gas”. C’è inoltre il tema del legame tra missioni militari e difesa degli interessi legati ai combustibili fossili. “ Nel 2024, il governo italiano spenderà circa 900 milioni di euro per la cosiddetta “sicurezza energetica”, che in realtà significa protezione degli approvvigionamenti fossili, non certo delle fonti rinnovabili”.
Dall’economia di guerra all’economia di pace
Spiega Giulio Marcon, portavoce della campagna Sbilanciamoci che “ con il costo di un cacciabombardiere F-35, si potrebbero garantire residenze universitarie pubbliche e gratuite a 6.500 studenti e studentesse fuori sede, che oggi sono costretti a pagare affitti esorbitanti. Con il costo di un carro armato Ariete, si potrebbero acquistare 597 apparecchiature Tac, fondamentali per chi, a basso reddito, è costretto ad attendere mesi per una diagnosi. Con il costo di un carro armato Leopard, si potrebbero acquistare 1.409 ventilatori polmonari, strumenti indispensabili durante la pandemia e ancora oggi carenti in molte terapie intensive. Con il costo di un cacciamine, si potrebbero garantire cinque anni di assistenza domiciliare a 8.471 anziani non autosufficienti, con salari dignitosi per le operatrici e gli operatori coinvolti. Con il costo di un sommergibile, che supera il miliardo di euro, si potrebbero assumere per cinque anni oltre 8.000 nuovi infermieri, oggi indispensabili per rafforzare il nostro sistema sanitario pubblico. Con il costo di un cingolato leggero, si potrebbero acquistare 224 nuove ambulanze e assumere operatrici e operatori del pronto intervento, fondamentali per salvare vite ogni giorno. Tutto ciò è possibile perché le stesse tecnologie usate per produrre armi possono essere impiegate per finalità civili. La nostra proposta è chiara: un’economia di pace, civile, al servizio dei bisogni fondamentali delle persone”.
Italiani scettici sul riarmo
“ In Italia, tutti i sondaggi degli ultimi cinque anni confermano che tra il 65% e il 75% delle persone sono contrarie all’aumento delle spese militari e favorevoli a una loro riduzione. Ma allora c’è un problema di democrazia: se la maggioranza dei cittadini vuole una cosa, ma la politica va nella direzione opposta, c’è un “buco” democratico. E noi questo lo dobbiamo rendere visibile”, invita Vignarca. “ Gli strumenti per la campagna contro il riarmo ci sono: rilanciateli, informatevi, connettetevi a livello internazionale. Ma soprattutto: diciamo chiaramente che noi, il riarmo, non lo vogliamo”.
La risposta istituzionale
“L’articolo 52 della costituzione della Repubblica Italiana dice: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.” È l’unica volta in tutta la Costituzione che compare la parola “sacro”. Ma non è scritto da nessuna parte che sia sacro dovere difendere la patria con le armi. Tuttavia, rimane il dovere di difendere la patria. E allora: se non con le armi, come la difendo? Ecco perché serve una struttura istituzionale: può essere un Dipartimento della Difesa Civile, può essere un Ministero della Pace, come propone la Comunità Papa Giovanni XXIII insieme a molte altre realtà. Il nome è meno importante. Quello che conta è avere un riconoscimento pubblico e istituzionale di questa alternativa”, spiega Vignarca.
Essere parte attiva nella filiera della Pace
Andare fuori dalla logica del “ si è sempre fatto così” ed entrare come “ parte attiva nella filiera della pace” è l’invito-provocazione finale di Matteo Fadda, responsabile generale dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Quella della filiera della pace “ è un’immagine potente, che ci inserisce in un contesto in cui ciascuno ha una responsabilità. E allora, la prima provocazione che lascio è questa: ci sentiamo parte di questa filiera? Credo che molti di noi sentano l’urgenza di assumerci la nostra parte di responsabilità, e questo appello non riguarda solo i giovani. È fondamentale, quindi, sviluppare consapevolezza. L’incontro di oggi ha soprattutto questo scopo: rafforzare le fondamenta della nostra speranza. Una speranza che ci interessa coltivare per uscire dalla logica della rassegnazione, che altrimenti porta alla disperazione”.
“Abbiamo visto oggi che esiste un’alternativa alla difesa armata: la difesa civile, non armata e nonviolenta, ed è un obiettivo da perseguire. Non è solo un ideale alto e distante: ci coinvolge a partire dall’impegno quotidiano, come cittadini attivi, nelle nostre comunità. E non solo per un motivo etico o perché è più giusto. Ci conviene. Parafrasando Pascal, che invitava a scommettere sulla vita cristiana anche solo per convenienza, potremmo dire lo stesso: ci conviene scegliere la pace e la nonviolenza. Anche chi non è motivato da un ideale etico può riconoscerne il vantaggio”, conclude Fadda.

