Home Vita della chiesa Un amico, un prete vero, un testimone di fortezza e di speranza

Un amico, un prete vero, un testimone di fortezza e di speranza

Avevo conosciuto don Alvaro in seminario, a Roma, nel 1959. Da allora diventammo amici, un’amicizia che non si è mai interrotta. Siamo diventati preti insieme nel 1963, nella chiesa di S. Agostino – allora era la sua parrocchia. Ci siamo ritrovati a collaborare, soprattutto negli ultimi anni. Ci trovavamo insieme ogni anno con gli altri amici di classe del seminario romano, e con gli amici riminesi: don Romano Nicolini, don Luigi Scappini e don Domenico Valgimigli. Quando andavamo a trovarlo in ospedale, nelle ultime settimane di particolare sofferenza, ci accoglieva e ci salutava con “sei un amico!”.

Ricordo le interminabili discussioni dal tempo del seminario: don Alvaro era ricco di cultura classica e amante dei temi di attualità, era saggio e pacato, stringente nel ragionamento. Ricordo la sua passione per lo sport, in particolare per la pallavolo, in cui, anche per la sua altezza e prestanza fisica, eccelleva fra tutti; per il suo amore per la montagna; per i suoi vasti interessi culturali, che facevano capolino spesso anche nelle sue omelie.

Un vero e buon prete, alieno dalle polemiche, spontaneo e semplice nei rapporti umani, concreto e operoso, tutto intento nella missione che il Vescovo gli aveva affidato. Visse i primi due anni di sacerdozio come cappellano a San Giuliano borgo, in aiuto all’anziano e austero don Claudio Stafani. Poi il Vescovo mons. Biancheri lo mandò come sacerdote assistente e insegnante in quello che era una pupilla del suo impegno pastorale e sociale, il Centro Zavatta, allora agli inizi. Lì don Alvaro maturò quell’interesse per la pastorale del lavoro e per le questioni sociali che lo renderà, anche in parrocchia, particolarmente attento all’impegno dei cristiani nella società, e ad essere, negli ultimi anni della sua vita, competente direttore dell’ufficio diocesano di pastorale sociale.

Nel 1981 divenne collaboratore di don Giuseppe Semprini, l’indimenticabile don Pippo, del quale fu degno continuatore come parroco di San Gaudenzo dal 1990. In parrocchia diede vita e cuore a innumerevoli iniziative, che fanno di San Gaudenzo una delle parrocchie più strutturate e vive, in piena sintonia con le indicazioni e la vita della Diocesi. Fra le iniziative pastorali più significative non può essere dimenticata l’attenzione speciale alla famiglie in situazione difficile e alle professioni “liberali”, così incisive nella vita della società. Il fiore all’occhiello della “Sanges” – così spesso è chiamata non solo la squadra sportiva, ma la parrocchia stessa – è stato dai tempi di don Pippo il “campo” ai Casetti, che don Alvaro volle strutturare alla grande, come un centro attrezzato di aggregazione e di vita comunitaria per i giovani e per le famiglie. Così la parrocchia di San Gaudenzo, stretta fra le mura e le strade del Borgo, acquisiva un polmone verde, uno spazio comunitario impareggiabile. È stata grande – e ultima – soddisfazione di don Alvaro poterlo inaugurare appena poche settimane prima che la sua malattia si manifestasse.

Nel suo ministero don Alvaro ha retto anche importanti responsabilità nel presbiterio e nella Diocesi. È stato segretario del Consiglio pastorale diocesano e vicario del Vicariato urbano. Il Vescovo mons. Mariano, per riconoscenza, ne chiese la nomina di “monsignore”, nel 1994.

La sua gente gli voleva molto bene; e non poteva non volerglielo, visto l’affetto di padre e di fratello, il sorriso buono, l’accoglienza e la premura con cui don Alvaro a tutti si rivolgeva. Mi ha molto colpito, nelle frequenti degenze in ospedale ed in particolare nelle ultime settimane, la gara di solidarietà nell’assisterlo, con turni assidui, che manifestano non solo la doverosa premura per il parroco, ma il rapporto affettuoso con l’amico malato.

Già, il malato. Come malato don Alvaro è stato speciale: ha vissuto la malattia con fede incrollabile, con fortezza, con ottimismo. Sempre sereno e fiducioso di guarire. Dava sempre a sperare, a tutti, di potercela fare. Ma, “dentro”, era consapevole della gravità del suo male e dell’esito che si preparava. Ha vissuto la malattia e la sofferenza durissima e continua come celebrazione della Messa con la sua stessa vita. Negli ultimi giorni ha saputo affrontare a viso aperto il “momento di sciogliere le vele”: si è affidato al Signore, e, come recitando la sua ultima compieta, ha detto: “nelle tue mani, Signore, affido il mio spirito”. Passava così dalla speranza alla luce, dalla malattia alla vita, dalla fatica al premio.

don Aldo Amati