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I Pescatori allo specchio

Il tenore Kevin Amiel Ph Edoardo Piva

L’opera di Bizet ha inaugurato la stagione del Regio di Torino con un suggestivo spettacolo della coppia Julien Lubek e Cécile Roussat  

TORINO, 6 ottobre 2019 – Tutto ostentatamente finto. A cominciare dal mare che circonda la terraferma: uno specchio su cui volteggiano mimi e danzatori. Del resto è un oriente come se lo immaginavano a metà ottocento gli intellettuali francesi, da Flaubert a Théophile Gautier: tanto più se c’erano di mezzo oppio e assenzio. E infatti, fin dal celebre duetto tenore-baritono del primo atto (dove Nadir e Zurga ribadiscono il loro vincolo di amicizia, capace di andare oltre la rivalità amorosa), compare con grande evidenza un narghilè.

Il soprano Hasmik Torosyan (Leïla) – Ph Edoardo Piva

Les Pêcheurs de perles hanno inaugurato la stagione del Regio di Torino con un allestimento di Julien Lubek e Cécile Roussat: coppia artistica e di vita che cura ogni aspetto dello spettacolo, dalle scene ai costumi, dalle coreografie alle luci. A prima vista, potrebbe sembrare una delle tante ricostruzioni oleografiche di un oriente di maniera: per intenderci, quelle che prima dell’avvento del Regietheater riscuotevano l’incondizionata approvazione del pubblico. A ben guardare, invece, questo spettacolo non risponde a criteri di un’operazione passatista: pur mantenendo una scena pressoché invariata, punta soprattutto sul movimento e riesce così a suggerire – attraverso cornici cangianti in senso cromatico – il riflesso dei mutati atteggiamenti psicologici dei personaggi. E, forse il pregio più grande, appare estraneo a ogni decorativismo: pur nel trionfo di colori e nel ricorso a mimi e ballerini (anche la protagonista ha un “doppio” danzante che dà forma al suo inconscio), tutto risponde a criteri di rigorosa essenzialità, sempre funzionali alla musica.

Scritta da un Bizet non ancora venticinquenne (1863), quest’opera è ormai di rara rappresentazione. I pescatori di perle infatti sono stati sempre concepiti come banco di prova per grandi interpreti vocali, dove l’attenzione è concentrata quasi esclusivamente sugli aspetti canori: in assenza di fuoriclasse – circostanza oggi frequente – l’interesse si sposta sul versante drammaturgico e, così, se ne avvertono tutte le debolezze. Del resto la consapevolezza di certe fragilità, in anni passati, ha spesso autorizzato anche la modifica del finale. A Torino, per fortuna, è rimasto quello originale di Bizet, che prevede una conclusione malinconica e sfumata invece di quella cruenta (dove Zurga trova la morte sul rogo): assai più plateale, ma meno adatta a una evanescente fiaba che galleggia tra il sogno e un convenzionale esotismo.

Da parte sua il direttore inglese Ryan McAdams ha affrontato con molta convinzione la musica di Bizet, valorizzando i tenui echi protowagneriani della partitura e adoperandosi per dare il giusto risalto alle suggestioni orientaleggianti del testo. Soprattutto, è riuscito a sottolineare quegli incisi melodici che – seppure sviluppati in tutt’altro modo – ritorneranno in Carmen, sostenendo, poi, gli slanci vocali degli interpreti, così come il versante belcantistico.

Nel cast svettava il soprano Hasmik Torosyan, oltremodo espressiva nel comunicare i cambiamenti di stato d’animo di Leïla, grazie alla duttilità con cui sa passare dagli accenti ieratici della sacerdotessa alle colorature più virtuosistiche della donna innamorata. I due amici-rivali erano interpretati dal tenore Kévin Amiel – assai lontano dai mattatori che hanno legato il loro nome all’opera, sebbene del suo Nadir si potesse apprezzare soprattutto la lunghezza dei fiati – e dal baritono Pierre Doyen: uno Zurga di emissione fin troppo tenorile, più preoccupato di seguire la linea vocale che di dare spessore a un uomo ripiegato sui rimpianti. Il loro duetto iniziale Au fond du temple saint risulta così un po’ disinnescato, senza essere un caleidoscopio di sentimenti contrastanti. Completava il quartetto degli interpreti Ugo Guagliardo, dalla voce troppo spigolosa per dare una qualche fisionomia al personaggio del gran sacerdote Nourabad. La medietas vocale, però, non ha impedito all’esecuzione torinese di essere appagante. Del resto, si può guardare in molti modi a questo Bizet.

Giulia Vannoni