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La prima notte a Casa Betania

Naturalmente non potevo mancare sabato 5 luglio alla concelebrazione presieduta dal vescovo Francesco per festeggiare i 35 anni della Casa Betania, la prima casa famiglia della comunità papa Giovanni. Anche se certamente non passerò alla storia (neppure) per questo, ebbi l’onore di essere il primo operatore che vi ha dormito la prima notte, proprio quel 3 luglio 1973. Una cosa avvenuta assolutamente per caso, che si ripeté comunque nelle successive quindici notti. Infatti la casa fu aperta da Ida Branducci, una generosa ragazza di Savignano. Il primo giorno arrivarono due ospiti: Guido, un simpaticissimo ragazzo down; e Mario, con un percorso molto più complesso. Per evitare chiacchiere inutili in paese, don Oreste decise che Ida avrebbe dormito, almeno nei primi tempi, presso le suore Maestre Pie. Don Sisto, che sapeva di una mia disponibilità ad un anno di servizio nella comunità, venne a cercarmi. Fu una notte un po’ comica, dove sia io che Guido dormimmo pochissimo (anzi per niente), un po’ eccitati un po’ preoccupati per la nuova situazione. L’unico che non ebbe problemi fu Mario, che in realtà era il motivo (incolpevole) delle nostre ansie.
A Casa Betania poi ci ritornai alla fine dell’estate, per viverci un anno. A quella casa e ai suoi ospiti devo gran parte della mia vocazione. Alla fine di quell’anno rientrai in seminario. In quel tempo di condivisione, scelsi di vivere la vocazione al servizio dei più deboli, nel sacerdozio.
L’incontro con il povero è l’incontro con le conseguenze del male che c’è in noi, che c’è nel mondo, è incontrare l’egoismo, l’odio, la miseria. Non da gioia, anzi nell’animo tristezza, sconforto…
Don Oreste ci diceva sempre (e lo ha ripetuto per anni): “Non riesce a stare in piedi chi non sta in ginocchio”.
Solo Dio può darti la forza di un amore davvero gratuito, perché gratuito dev’essere davvero. Il povero vero, non quello romantico, è di solito abbruttito dalla miseria, non facile alla gratitudine, non “bello”… Molte volte abbiamo compreso sulla nostra pelle il concetto dell’essere <b, tra l’altro sempre molto coscienti del proprio limite e della propria inadeguatezza.
Casa Betania era un grande laboratorio.Nessuno di noi aveva particolari esperienze educative e neppure le situazioni accolte erano facili. Tutt’altro. Silvio arrivò lì rifiutato da tutte le istituzioni pubbliche e private ormai incapaci di contenere la sua determinazione a contare qualcosa, anche autodistruggendosi. Rifiorì in pochi mesi, giungendo ad una discreta autonomia che dura tutt’oggi.
Le linee di fondo erano: l’amore e l’attenzione alla singola persona; un impegno educativo che durava 24 ore e non terminava mai; una condivisione totale delle situazioni; una forte e continua elaborazione culturale di quel che vivevamo; un bellissimo coinvolgimento del paese che non sentiva la casa come estranea, perché la socializzazione era la prima terapia; l’accoglienza e la proposta di lasciarsi interpellare concretamente per tutti coloro che venivano alla casa anche solo per curiosità…
Don Oreste invitava sempre a distinguere con forza il male dal malato, il peccato dal peccatore. Il peccato veniva combattuto con tanta determinazione, il peccatore accolto e amato. Anche la sua scelta nonviolenta evangelica (troppo spesso banalizzata e dimenticata) era frutto anche di questa coscienza.
L’incontro con le persone a casa Betania era vissuto come una chiamata che Dio ti fa e che ti deve cambiare la vita. Per don Oreste era stato così con i preadolescenti, con i giovani, con gli handicappati fisici degli istituti…è stato così con i malati psichici, le case famiglia, i tossici, i barboni, gli zingari, le prostitute, i bambini non nati… Ogni scelta di impegno era conseguenza di un incontro concreto. All’inizio di Casa Betania c’era stato l’incontro con Marino, un giovane in seria difficoltà, rinchiuso in casa, solo, aiutato dalla solidarietà di qualche vicino, che gli portava un po’ di cibo.
Idea fondamentale di Casa Betania era il “pronto soccorso”. Chi veniva accolto lo era solo per il tempo necessario per trovare una soluzione che fosse migliore della strada, della solitudine o dell’istituto. Possibilmente una famiglia. Questo progetto poneva la casa sempre in dimensione dinamica rispetto al territorio, ai servizi sociali, alla comunità cristiana.
La condivisione muoveva l’animo dei membri della comunità verso la giustizia. Non era accettabile aiutare un giovane ad uscire dalla sua storia di violenza e contemporaneamente fare silenzio di fronte a situazioni che a livello sociale generavano altre miserie e povertà simili. Nacque allora Commissione Giustizia che fu il motore di molte manifestazioni pubbliche, convegni di studio e di proposte anche legislative.
Sul versante ecclesiale forte era la coscienza che nasce dall’idea paolina della chiesa come un corpo, dove le membra hanno funzioni diverse, ma per richiamare tutto il corpo ad interessarsi delle parti più deboli e fragili. In questo senso don Oreste leggeva la sua comunità non come una totalità, ma come un carisma, un dono per la Chiesa. Diceva negli anni in cui ero alla Casa famiglia: non è compito nostro accogliere tutti i poveri e tutte le situazioni, ma essere segno, perché la Chiesa tutta viva questo impegno: In ogni parrocchia – diceva – una casa famiglia Nel tempo questa sua attenzione, a volte, si è spostata su altre priorità, ma io sono rimasto debitore di questa sua iniziale visione.

Giovanni Tonelli