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La grinta di “Icio” fuori e dentro il ring

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Ne ha fatti di sacrifici per quel ring. E ne ha di rimpianti, a cominciare da quella giovinezza mai vissuta. Ma l’Oro olimpico, a “Icio” Stecca, non lo leverà nessuno. Così come i guantoni che ancora oggi lo aiutano ad affrontare un incontro ancora più ostico di quelli vissuti nella sua carriera da pugile. L’incontro con una malattia che colpisce una persona su un milione. A pochi giorni dall’attentato al Parlamento di Londra, dove era in visita con la Nazionale italiana di pugilato, di cui oggi è alla guida, Maurizio Stecca ci racconta di sé, del rapporto con la sua Rimini e della prima grande passione della sua vita.

Cosa rappresenta per lei il pugilato?
“La mia vita anche se sono nato più come atleta che come pugile”.

Sembrava non portato per via del fisico esile, ma il maestro Elio Ghelfi ha creduto nel suo talento.
“Proprio così. Dal 1978 (anno del primo titolo italiano novizi, ndr.) al 1984, quando ho conquistato l’Oro olimpico a Los Angeles, ho militato tra i dilettanti. Poi è iniziata la seconda avventura nell’agonismo professionale: con sei ore al giorno di allenamenti, il pugilato non poteva che essere il mio unico lavoro. Avevo già una famiglia mia da mantenere, dovevo prepararmi per gli incontri, pensare ai contratti, non potevo divertirmi, non esistevano feste né compleanni… Ecco, se c’è una cosa che il pugilato mi ha tolto è la giovinezza. Per me dovevano esistere solo gli allenamenti”.

E con Loris che rapporto c’è?
“Ho sempre seguito mio fratello, sono cresciuto guardando lui, ma imparando anche dai suoi errori”.

Per entrambi Ghelfi è stato il maestro.
“Sì, per noi è stato un po’ come un padre acquisito. Prima delle Olimpiadi di Los Angeles mi dovevo sposare. Lui mi consigliò di rimandare a dopo il grande appuntamento. «Pensa che bello che sarà festeggiare con la medaglia d’oro sul petto!», mi disse”.

Ed ebbe ragione. Cosa significa quella medaglia?
“Tutto. I titoli mondiali si vincono e si perdono, quell’Oro rimarrà per tutta la vita ed io sarò ricordato per questo anche dopo la morte”.

Eppure ha detto in più occasioni che la sua città non le è stata vicina…
“Purtroppo è così. A Rimini abbiamo vinto l’Oro solo io e Romeo Neri. Quando arrivai a Roma dopo Los Angeles, c’erano ad accogliermi solo il mio manager e Ghelfi. Tornai a Rimini ancora con l’alloro in testa, nessun rappresentante dell’amministrazione si fece vivo. Ricordo ancora il gran calore dei tifosi e degli amici, la festa al Bagno 28 in mio onore, quella alla pizzeria al taglio dei miei genitori. Dopo una settimana mi arrivò l’invito del Comune per una premiazione. Risposi che era giusto che con me ci fosse anche Roberto Manzi (l’avvocato, ndr) che aveva vinto il Bronzo nello scherma. Alla fine non se ne fece nulla. Ma non sa quanto avrei voluto poter fare l’ambasciatore di Rimini nel mondo…”.

Come vede il rapporto tra Rimini e lo sport?
“Non funziona. Sia chiaro, la mia è una critica costruttiva, ma non vedo verso lo sport l’attenzione che c’è verso altri settori. Ho sempre dovuto lottare nella mia città per chiedere una palestra adeguata (quella della Libertas alla fine dovette chiudere). È stato fatto un Palazzetto e il basket è sotto. L’atletica è in declino perché non abbiamo uno stadio all’altezza. Abbiamo tanti eventi: vanno bene il fitness, il wellness, la cultura, ma se non ci sono strutture sportive adeguate non si va da nessuna parte. Chi arriva da tutto il mondo per le fiere vuole anche fare sport”.

Quali sono stati i suoi più grandi miti?
“Ne ho conosciuti tantissimi, da Mohamed Alì che mi strinse la mano dopo la vittoria dell’Oro, a Jack Nicholson; da Massimo Troisi a Eros Ramazzotti”.

Non mi dica anche Rocky.
“Come no! Sono andato a Philadelphia dove hanno girato il film, ho fatto la scalinata famosa dove lui si allena, e l’ho fatta quattro volte senza sentire dolore! Una grandissima emozione poter rivivere i luoghi del set”.

Il più grande avversario?
“Quelli che mi hanno battuto, ma non perché io fossi più debole. Espinosa ad esempio, che è venuto anche a Rimini a combattere. Quella volta sono salito sul ring senza la convinzione necessaria”.
Cosa si pensa fino al secondo prima di entrare tra le quattro corde?
“Prima di cadere, con tutti i sacrifici che ho fatto per arrivare a questa sfida, l’altro deve essere veramente più forte di me. Io ho sempre pensato questo: la preparazione è la prima cosa sul ring. Il pugilato è uno sport bellissimo ma crudele, che non perdona”.

Ai suoi ragazzi oggi cosa trasmette?
“I valori sociali ed educativi sono fondamentali. Cerco di essere severo ma anche di capirli. Racconto loro dei sacrifici che ho fatto, dei miei tempi, in cui quando ero in viaggio per un incontro, per andare a telefonare a casa si faceva la raccolta dei gettoni per chiamare ad una cabina. Loro mi rispondono che la comunicazione ed il telefonino sono la loro droga. Non gliela possiamo togliere, solo dare limiti. E spiego loro che conta non solo fare sport, ma il come lo si fa. Per ogni atleta ci vogliono tre giorni di recupero se si fa una notte in bianco in discoteca”.

E come vede i giovani di oggi?
“Con i miei ragazzi giro il mondo. All’estero è bello andare in vacanza, ma se ci vai per sport le cose hanno già un’altra prospettiva. Capisci allora che in paesi meno fortunati la gente è più preparata a soffrire e quando ha quel poco di più, apprezza di più. Noi, invece, abituati ad avere tutto, non facciamo che lamentarci e sognare di andare oltre confine”.

Sono passati alcuni giorni dall’attentato di Londra, il 22 marzo. Cosa è rimasto di quel terribile momento?
“La tensione nel continuare a viaggiare, e il non riuscire a farti una ragione di come possa essere successa una cosa simile, con tutti i controlli che ci sono. Poco prima dell’attentato, quella mattina, commentavamo la presenza di tantissimi agenti di sicurezza. Qualcuno ha anche detto: chi potrà mai colpire con tutte queste guardie? Invece è successo. A pochi metri da noi. Se dopo aver ferito a morte l’agente, l’attentatore avesse saltato la transenna che ci separava, ci avrebbe presi e accoltellati. Ma è arrivato l’agente in borghese a sparargli. Una scena da film. I ragazzi hanno dovuto ugualmente combattere il giorno dopo, non era possibile spostare la data dei World Series Boxing. Moltissimi volevano mollare. Ho cercato di far capire loro che lo sport deve andare avanti, nonostante tutto”.

Quanto le sono serviti i guantoni nella vita?
“Tantissimo. A un anno da quando ho posto la parola fine alla mia carriera, mi è stata diagnosticata una malattia rara, la Emolobinuria Parossistica Notturna (EPN), 150 casi in tutta Italia. Colpisce le cellule del sangue, i globuli rossi si spaccano. Il mio midollo non ne produceva di nuovi e per dieci anni dovetti fare delle trasfusioni. Ma non ho mai smesso di fare l’allenatore. Lotto da quando sono nato, per giunta settimino. Mi hanno battezzato due volte perché sembrava che dovessi morire”.

Se l’avversario è una malattia rara, come ci si allena?
“Senza mollare. Dopo un decennio di trasfusioni ho subìto un attacco epilettico che mi ha riportato certi valori del sangue nella norma, ma mi è stata diagnosticata un’altra malattia ancora più rara: la Sindrome di Budd-Chiari, che porta ad un altissimo rischio di trombosi. Appena una persona su un milione ne è affetta e in Italia siamo in 3, forse 4 a doverci sottoporre ad un Protocollo di contrasto: prevede tre vaccini, uno dei quali può però portare alla Meningite”.

Com’è il rapporto con il Sistema Sanitario in tutto questo?
“Difficilissimo, ogni sera devo fare una puntura, dieci costano 200 euro. Nei primi anni, ho speso 900mila lire a settimana in medicine. Non posso vivere con la paura di quanto mi potrà accadere. Vado avanti cercando di fare il mio lavoro di allenatore. È quello che mi sta salvando”.

Alessandra Leardini