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Harouna e la sua famiglia riminese

Fermare l’immigrazione? Il decreto sicurezza ha trovato una delle soluzioni nella fine del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Per restare in Italia ora serve avere un lavoro. Questo significa che se uno straniero attualmente è in Italia col vecchio permesso, una volta che questo sarà scaduto, potrà restare solo se avrà ottenuto un permesso di lavoro. Peccato che la questione in molti casi si traduca in uno di quegli avvitamenti burocratici difficili da sbrogliare, che tanti, che qui in Italia avevano trovato una casa e iniziato un vero percorso di integrazione, rischiano di non riuscire a superare. Il primo problema sono i documenti: allo straniero che chiede il permesso di lavoro occorre avere il passaporto dal proprio paese di origine e questo passaggio è tutt’altro che semplice o scontato. Ci sono paesi africani che semplicemente di fatto non rilasciano i documenti. Oppure, per prenderli, lo straniero dovrebbe tornare in quel paese – da cui spesso è fuggito per la guerra in corso o le persecuzioni politiche – per andare di persona a recuperarli e poi tornare in Italia. Una cosa, inutile dire, impossibile in molti casi.

La storia di Harouna comincia un passo più avanti. Lui, dopo sette mesi dalla richiesta, è riuscito ad ottenere il passaporto dal suo paese di origine, il Mali. Un fortunato, rispetto a tanti altri. Soprattutto perchè sulla sua strada ha trovato due angeli: Stefania e Ignazio. Sono loro ad averlo accolto in casa insieme ai loro tre figli: un ragazzo diciottenne e due ragazze grandi che studiano all’università. È grazie a loro, al loro sostegno, che ora Harouna spera di compiere anche il passo successivo: trovare un lavoro, in modo che alla scadenza del suo permesso per motivi umanitari possa richiedere il nuovo permesso, legato all’occupazione. È grazie al sostegno di Stefania e Ignazio, e di tutta la rete di persone che hanno attivato, che si sta cercando una soluzione per formare Harouna e portarlo a trovare l’agognato lavoro.

23 anni, ma apparentemente ancora più giovane, Harouna era partito dal Mali senza sapere che il suo viaggio l’avrebbe portato in Italia. Attraversato il deserto dell’Algeria, si è ritrovato nell’inferno delle prigioni libiche. Da qui l’hanno messo su una barca – lui che non aveva mai visto il mare – e con quella è arrivato in Italia: prima a Palermo, poi trasferito a Bologna, infine inserito in un progetto di accoglienza gestito dalla Caritas. Finita l’accoglienza in Caritas, con l’arrivo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, per lui si è aperta la fase dell’incertezza, del non sapere dove andare. I documenti: l’eterno cruccio di questi ragazzi. Il giorno che arrivano è in realtà quello più difficile, perché scatta la fase dell’incertezza: diventano liberi di andare, ma molti non sanno dove. Per lui è partita una staffetta sui social, che tramite una chat di whatsapp è arrivata anche a Stefania: “Chi se la sente di accogliere un ragazzo rifugiato politico?”. Quel messaggio spiazzante ha aperto per la famiglia una prospettiva nuova, sconosciuta fino a quel momento. “La richiesta ha incrociato un qualcosa che in quel momento stavo vivendo dentro – racconta Stefania – Mi sono chiesta se fossi in grado di voler bene gratuitamente all’altro. Questa richiesta di aiuto mi è sembrata una strada per imparare ad amare”.

Tutti i possibili motivi per rifiutare (lo spazio in casa, i tanti impegni di lavoro e di famiglia) a Stefania sono sembrati piccole cose, che non giustificavano un no come risposta a quella richiesta di aiuto. Ne ha parlato ai figli. “Il giorno di Pasqua, mentre facevamo colazione, ho detto di questo desiderio ai miei figli. Avevo paura che credessero che fossi impazzita. Invece hanno detto sì all’istante”.
Per il marito, Ignazio, l’incertezza è durata un po’ di più. “All’inizio ho detto proprio di no – spiega lui – Sono stati i miei figli a darmi, a un certo punto, una smossa al cuore. Tutti e quattro erano fermi nella loro decisione e io ho accettato di conoscere Harouna. Oggi posso dire che la conoscenza fa cadere tutti i muri”. Prima ci sono stati i pranzi a casa, poi i momenti di incontro allargati agli amici. E a luglio scorso Harouna è arrivato a vivere con loro.
“È partita una staffetta. Pensavo ci fosse una chiusura da parte dei vicini. Invece ci siamo accorti che il bene è contagioso – racconta Stefania – Si sono fatti avanti in tanti, tra i vicini e i parenti, per insegnare ad Harouna a fare cose, insegnargli meglio l’italiano, oltre che per le cose materiali”.

Ora Harouna frequenta la terza media e sta facendo dei corsi di cucina, in modo che a giugno, finita la scuola, possa essere pronto ad entrare nel mondo del lavoro. Nei prossimi mesi cercherà di sperimentarsi il più possibile, alla ricerca della sua strada. Quello del fornaio è un sogno verso cui lo spinge anche il fatto che si tratta di un settore in cui c’è richiesta, ma sempre meno candidati. Stefania e Ignazio stanno indirizzando la buona volontà che Harouna mette in ogni cosa che fa. “Non ci sentiamo supereroi o speciali – sottolinea Stefania, che parla del suo ospite come della persona che a lei sta facendo un dono speciale – Giorno dopo giorno questa accoglienza ci sta educando. Tornare a casa e chiedere come sta, lui, una persona che non è mio figlio, ma mi è stata affidata: è qualcosa che scalfisce la durezza del cuore”.

Se il loro gesto non può essere alla portata di tutti, tutti possiamo comunque accogliere, secondo Ignazio. “Non solo in casa. Accogliere è anche donare un paio di scarpe, o un sorriso per strada quando incontriamo questi ragazzi”. Il pensiero di Ignazio e Stefania corre costantemente anche agli altri ragazzi: i tanti che attraverso di lui hanno conosciuto e iniziato a frequentare. È anche delle loro sorti che Ignazio si preoccupa mentre racconta un altro aspetto di questo decreto sicurezza. “Il decreto sicurezza toglie ai richiedenti asilo la possibilità di essere iscritti all’anagrafe, ovvero di avere una carta di identità. Ma senza di questa non possono avere un conto in banca, non possono ricevere uno stipendio, i datori di lavoro non possono pagarli”. Regole che, insomma, fanno allontanare il lavoro, da cui dipende il permesso.

“Questo si traduce nella possibilità di lavorare solo in nero, ovvero di entrare in un circuito di sfruttamento” conclude Ignazio.
Anche per Harouna il tempo per trovare il lavoro sta scadendo. Parlando con lui si capisce che è preoccupato, nonostante il sorriso. È proprio Ignazio, spesso, a rassicurarlo. Alla sera fanno spesso lunghe chiacchierate. “Una sera tornando a casa mi ha detto: «Ignazio, ma io e te siamo uguali?» No, ho risposto. Sei nero, che non ti si guarda, sei musulmano, parli un’altra lingua, dici cose che non comprendo. Secondo te siamo uguali? Non lo siamo e questo è bellissimo, siamo talmente diversi che serviamo l’uno all’altro”. «Ma il nostro cuore è uguale?» ha chiesto quindi Harouna. Quello assolutamente sì – ha risposto Ignazio – E ci siamo abbracciati”.
“Per Harouna la cosa che lo ha fatto ripartire e che fa rinascere ogni uomo – conclude Stefania – l’unica cosa che può avere la forza di intaccare il cuore dell’uomo, in qualsiasi condizione esso si trovi, è accorgersi di uno sguardo diverso su di sé, accorgersi che per qualcuno la tua vita vale”.

Stefania, Ignazio e Harouna hanno raccontato per la prima volta la loro storia ai microfoni di Icaro Tv. Dopo quel servizio, andato in onda nel telegiornale e rilanciato sul sito newsrimini.it, le manifestazioni di affetto nei loro confronti sono state tante.
In diversi si sono fatti avanti mostrando la volontà di offrire ad Harouna la possibilità di sperimentare le sue capacità in campo lavorativo. Qualcosa si muove, insomma. E non solo per lui. Stefania e Ignazio non escludono che questi rapporti che si aprono possano poi dare frutti per altri ragazzi nella situazione di Haro. Quelli accolti da una vera e propria rete di famiglie riminesi: una rete che non si fa sentire troppo, ma che ogni giorno si mobilita per questi ragazzi.

Serena Saporito