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Ferrigni Masnadieri

 


Al Teatro dell’Opera di Roma il raro titolo verdiano con la regia dell’attore Massimo Popolizio e Roberto Abbado sul podio  

ROMA, 4 febbraio 2018 – Dramma di violente passioni, già del tutto immerso nella nuova atmosfera romantica, I masnadieri (Die Räuber, 1782) di Schiller esercitarono su Verdi un fascino paragonabile a quello di certi titoli shakespeariani. E se il libretto di Andrea Maffei trasforma l’originale quasi in feuilleton, enfatizzando contrasti a forti tinte in modo abbastanza schematico, senza badare troppo alle sfumature, sarà poi la musica a forgiare figure con una psicologia assai più complessa e dagli sviluppi persino sconcertanti. Concepiti per Londra, dove debuttarono nell’estate del 1847, I masnadieri videro la luce quasi contemporaneamente al Macbeth (andato in scena appena quattro mesi prima), proprio nel periodo in cui Verdi cercava di allargare l’orizzonte dei suoi soggetti drammaturgici guardando oltre i confini nazionali – diventati per lui ormai troppo angusti – anche nell’intento di farsi conoscere all’estero.

Titolo di rara rappresentazione, I masnadieri sono stati proposti al Teatro dell’Opera di Roma in un nuovo allestimento che, sulla carta, offriva più di un motivo d’interesse: a cominciare dalla regia di Massimo Popolizio. Il bravissimo attore ha però pagato il prezzo di una certa estraneità al teatro musicale – si trattava del suo debutto operistico – con alcune intuizioni interessanti, ma che in palcoscenico non hanno prodotto gli esiti sperati. Può apparire suggestiva l’idea dei coristi che s’innalzano dal palcoscenico o ne vengono inghiottiti, ma l’eccesso di reminiscenze ronconiane (l’attore ha lavorato a lungo con il grande regista), come tenere il protagonista su una specie di torre metallica ogni volta che deve cantare, non facilita la fluidità dell’azione. Nel libretto ci si riferisce a inizio settecento, mentre i costumi di Silvia Aymonino e le scene di Sergio Tramonti – un ambiente unico, dimora dei Moor e, al tempo stesso, foresta boema dei briganti, su cui domina un grigio plumbeo – creano un’atmosfera cupa, che evoca un’epoca ancor più lontana e barbarica di quanto suggerisca il testo di Schiller: scelta poco in linea con un Verdi che aveva ormai intrapreso la sua marcia verso la contemporaneità o, quanto meno, il passato prossimo.

Pure sul piano musicale l’esecuzione suscitava qualche dubbio. Roberto Abbado ha fatto suonare molto bene l’orchestra, ma rigore e precisione non gli sono bastati a imprimere una sufficiente tensione drammatica, speculare alle violente passioni che agitano i protagonisti. Discutibile poi la scelta di ripetere i “da capo” senza palpabili variazioni (un effetto, oltre tutto, accentuato dall’irrigidimento scenico delle posizioni degli interpreti mentre cantano) e aver avallato, nelle arie, quelle riprese di fiato prima delle cadenze finali che spezzettano l’andamento musicale, accentuando l’impressione di frammentarietà.

In questo quadro, anche gli interpreti – più o meno validi, considerati isolatamente – non apparivano del tutto convincenti. Vera sorpresa della serata il giovane soprano Roberta Mantegna, che ha sfoderato notevole sicurezza nella scrittura belcantistica della prima parte, trovandosi altrettanto a suo agio quando il personaggio di Amalia vira verso il drammatico. Giuseppe Altomare ha affrontato con eleganza da baritono grand seigneur e ragguardevole aplomb un ruolo, quello del malvagio Francesco, che forse avrebbe richiesto più tagliente declamazione e maggior istrionismo vocale. Il tenore Stefano Secco si è destreggiato nei panni del protagonista Carlo Moor, ribelle aristocratico che diventa capo di una masnada: voce però avara di squillo, non riesce a rendere appieno né gli impeti né i rovelli del personaggio (vedi l’inizio, quando cita Plutarco per prendere dispregiativamente le distanze dai propri contemporanei). Il basso Riccardo Zanellato ha saputo imprimere dolente autorevolezza al vecchio Moor: sofferente figura di padre, che appare come una delle possibili varianti di quel Lear mai messo in musica da Verdi. Fra i comprimari l’ottimo Saverio Fiore è riuscito a dare spessore alle ambigue angosce di Arminio, servo complice dei misfatti ma tormentato dai rimorsi. Più esteriore la prova di Dario Russo, chiamato a dar voce – nei panni del pastore Moser – alle granitiche certezze della religione.

Successo solo parziale, anche se la curiosità verso un titolo poco conosciuto ha attenuato la delusione per ciò che non funzionava.

Giulia Vannoni