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“Essere sopravvissuto era come una colpa”

“Lo dico ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio”. Queste le parole che Papa Wojtyla pronunciò contro la mafia il 9 maggio 1993 ad Agrigento. Un anno prima, il 23 maggio 1992, circa trecento chili di tritolo tolsero la vita al magistrato antimafia Giovanni Falcone e ad altre quattro persone: la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.
In quella che prese il nome di Strage di Capaci rimasero ferite ventitre persone fra cui gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.
“Falcone diceva sempre che la mafia non è tanto la gente che ti spara, ma soprattutto quella che ti emargina, quella che ti lascia da solo”.
Sono accorate e al tempo stesso piene di amarezza le parole di Giuseppe Costanza, ospite giovedì 12 aprile al Centro Congressi SGR di Rimini in un incontro realizzato nell’ambito del progetto ‘Mafia e Legalità’ promosso dall’istituto Einaudi-Molari.
“Il fatto di essere sopravvissuto all’attentato si è trasformato in una colpa. Dopo un anno di visite e ospedali, al lavoro non sapevano cosa farsene di me. Al rientro nel Palazzo di Giustizia di Palermo fui declassato ed emarginato. Era mortificante, dopo otto anni passati in prima linea, sempre accanto al giudice Falcone. Così sono rimasto isolato fino al 2013 quando sono stato raggiunto da Tessarini e insieme abbiamo iniziato il lavoro che ha condotto a questo libro”.
Stato di abbandono è il titolo del libro di Riccardo Tessarini, edizioni Minerva, in cui Giuseppe Costanza si racconta in prima persona in circa centocinquanta pagine.
“C’eravamo sentiti telefonicamente la mattina di quel 23 maggio, per organizzare l’arrivo a Punta Raisi. Alle 17.45 sono all’aeroporto assieme alla scorta. Quel pomeriggio – ricorda Costanza – Falcone è alla guida, accanto c’è la moglie. Io sono dietro. La settimana prima mi aveva detto: È fatta, sarò il nuovo procuratore nazionale antimafi. Quel pomeriggio doveva incontrare alcuni suoi colleghi, ma non gli hanno dato il tempo. E ancora mi chiedo chi l’abbia voluto fermare”.
Ora Giuseppe Costanza va in giro per le scuole di tutta Italia per parlare del suo giudice e degli anni difficili a Palermo, ricordando anche i momenti cruciali del progetto del pool antimafia, nato dall’idea di Rocco Chinnici, ma sviluppato da Antonino Caponnetto (subentrato a Chinnici, ucciso il 29 luglio 1983) che, nel marzo 1984, mise in piedi la celebre squadra di quattro magistrati (Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe di Lello e Leonardo Guarnotta) per coordinare le indagini, sfruttando l’esperienza maturata e uno sguardo d’insieme che solo il pool poteva garantire.
I quattro magistrati erano affiatati, amici e con un sogno comune: restituire la città ai palermitani e la Sicilia ai siciliani onesti.
Il pool doveva occuparsi dei processi di mafia, esclusivamente e a tempo pieno, col vantaggio sia di favorire la condivisione delle informazioni tra tutti i componenti minimizzando i rischi personali, sia di garantire una visione più ampia ed esaustiva possibile di tutte le componenti del fenomeno mafioso. La validità del nuovo sistema investigativo si dimostrò subito indiscutibile.
Ma Cosa nostra fece ben presto terra bruciata attorno ai magistrati italiani: dopo l’omicidio di Giuseppe Montana (capo della squadra mobile di Palermo) e Ninni Cassarà (anche lui poliziotto) nel 1985, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, si cominciò a temere per l’incolumità anche dei due magistrati, che furono indotti per motivi di sicurezza a soggiornare per qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell’Asinara.
Qui iniziarono a preparare l’istruttoria. Le inchieste avviate da Chinnici e portate avanti dalle indagini di Falcone e di tutto il pool portarono a costituire il primo grande processo contro la mafia in Italia, passato alla storia come il maxiprocesso di Palermo, che iniziò il 10 febbraio 1986 e terminò il 16 dicembre 1987. La sentenza inflisse 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto dalla squadra.
Ma a partire dal 1988 viene smantellato il lavoro intrapreso dal pool, riportando i metodi di ricerca indietro di un decennio: da qui in poi, Falcone e i suoi dovettero fronteggiare un numero sempre crescente di ostacoli alla loro attività.
Nonostante gli avvenimenti e le amarezze, tuttavia, Falcone proseguì ancora una volta il suo lavoro, realizzando un’importante operazione antidroga in collaborazione con Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di New York.
“Oggi la mafia ha cambiato volto. Non è più tempo delle bombe. Io non accetto il concetto di trattativa Stato-mafia: quello che ho imparato da Falcone è altro. È innanzitutto una passione autentica e sincera per il proprio lavoro e dovere, senza compromessi. Il sistema del malaffare riguarda tutti noi: non dobbiamo cadere nell’errore di credere che siano solo fatti della storia, lontani nel tempo e nello spazio. Solo nel 2017 sono state ben 37 le unità immobiliari sospette segnalate nella sola Rimini”.
E Riccardo Tessarini chiosa: “Si dice che gli italiani, soprattutto le nuove generazioni, abbiano il dovere di coltivare la memoria; ma perchè ciò avvenga è imprescidibile che essi sappiano come sono andati i fatti. Tutti. Per questo la storia di Giuseppe Costanza va raccontata e diffusa: non solo per informare e fare chiarezza, ma perchè da essa ogni italiano possa trarre esempio, forza se necessario. O quantomeno perchè non ci si abbandoni allo sconforto e alla rassegnazione. Per questa e per tante altre ragioni nascoste nelle pagine del libro, ho creduto che il suo racconto meritasse di essere divulgato. Ne va della dignità di un uomo, ma anche della credibilità di una Pubblica amministrazione che dovrebbe essere al servizio dei contribuenti”.
Clara Castaldo