Cibi di una volta, ritorno al futuro

    BACCALÀ in festa! Stasera pasta e fagioli. Oggi trippa. Sono alcuni degli invitanti “spot” con cui le osterie adornano le proprie vetrine per invogliare i clienti a gustare i cibi del passato. “Che c’è di strano, li mangiamo tutti i giorni!” direbbero i contadini di una volta e chissà come ci rimarebbero a veder offerto, quasi come fosse oro, quel piatto che per loro significava solo togliersi la fame. Accade che i cibi che un tempo rappresentavano la “carne dei poveri”, come ad esempio pasta e fagioli, assumano oggi le caratteristiche di un bene di lusso. Un primo piatto di minestra coi legumi, infatti, può andare dai 7 ai 9 euro.
    Ma cosa fa salire il prezzo? Gli ingredienti, la preparazione o la moda?
    “Guardi, proprio ultimamente abbiamo deciso di aumentare i prezzi di alcuni piatti – risponde Massimiliano Balzani titolare, insieme al fratello, dell’osteria Tiresia di Rimini – perché abbiamo visto che i prezzi dei fagioli borlotti sono saliti alle stelle”.
    C’è chi, invece, si giustifica puntando il dito contro i rincari dei consumi.
    “Ma lei lo sa quanto costano affitti, luce, gas, il personale – sottolinea Carla Scarpellini dell’OK di Santarcangelo – e la lavorazione? Noi prepariamo tutti i sughi da soli e ci vuole tempo a tagliare e lavorare tutte le verdure”.
    Ciò che distingue poi un locale che realizza davvero i cibi come una volta da chi ci mette solo il nome, è il tempo e la pazienza con cui prepara i piatti delle tradizione.
    “Facciamo ancora cuocere il ragù lentamente per circa quattro ore” dicono dal Tiresia “e la trippa, preparata per San Martino, l’abbiamo fatta cuocere tre volte, come si faceva in passato” racconta la titolare dell’OK. La soddisfazione alla fine c’è: un signore 80enne si è presentato alle 8 del mattino e invece del cappuccino ha chiesto proprio di assaggiare la trippa.
    Ma sono solo i nonni ad amare questo tipo di cibi o anche i giovani stanno riscoprendo le antiche tradizioni? A giudicare dalla frequentazione di ristoranti e osterie si può sicuramente dire che non solo i capelli grigi siedono al tavolo degustando pasta fatta in casa, ciambella e albana.
    “Un gruppetto di ragazzi 30enni mi chiede spesso lo stinco al forno e il galletto alla contadina cotto in padella e anche il coniglio in umido va forte tra i giovani” racconta con soddisfazione il titolare del Tiresia.
    Pavimenti in cotto, il legno dei tavoli: tutto contribuisce in questi locali a ricreare le calde atmosfere e i momenti conviviali delle famiglie patriarcali. Ma è vero che era tutto più buono una volta?
    “Era tutto più buono perché c’era più fame e avevamo meno – risponde Carla, 60 anni e tanti ricordi – quando la domenica pomeriggio suonano le campane risento nelle narici l’odore delle cotolette al pomodoro che faceva mia mamma la domenica sera”.
    Ma attenzione perché “non tutto quello che facevano i nonni è buono per definizione – scrive Michele Marziani nel suo libro La cucina riminese. Tra terra e mare realizzato insieme a Piero Meldini – ben vengano territorio e tipicità, ma attenzione agli eccessi, all’integralismo, alla favoletta del c’era una volta”.
    Insomma se è un bene recuperare la tradizione anche come riscoperta delle proprie radici non bisogna eccedere, anche perché non è vero che la modernità ha portato solo appiattimento. La conquista di alcuni marchi come la DOP europea per l’olio riminese è stata raggiunta grazie a nuovi metodi di lavorazione che partendo dalla tradizione hanno migliorato i procedimenti. Se è indiscutibile il fatto che buona parte dei palati riminesi si sono omologati ai gusti industriali e standardizzati dei prodotti in serie sui banchi della grande distribuzione, è anche vero che non bisogna generalizzare. Vi sono ancora buoni prodotti che nel tempo, mescolando l’antico con il nuovo (ricordiamo che vi sono tuttora numerose aziende agricole nel nostro entroterra), hanno assunto nuovi sapori. “Tutte le cucine, i sapori, i saperi gastronomici hanno qualcosa da dire. E spesso, mescolandosi, rendono le cose più buone”.

    Silvia Ambrosini