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Taglio parlamentari: le ragioni del sì e del no

Roma 27/11/2017, votazione finale in Senato sul biotestamento. Nella foto l'aula durante la discussione

Ci troviamo alla vigilia di un momento, a suo modo, storico: il primo (e si spera ultimo) voto in tempo di pandemia.

Il 20 e 21 settembre, infatti, tutti gli italiani aventi diritto sono chiamati a esprimersi nell’ambito del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari. Una proposta, quella di ridurre il numero di deputati e senatori, che non è nuova, cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle già dal periodo di Governo con la Lega. Come si vota? Quando? Ma soprattutto: qual è il tema centrale sul quale siamo interpellati?

Approfondiamo punto per punto.

Il taglio dei parlamentari: cosa può accadere?

Secondo quanto pubblicato dal Viminale sul sito del servizio elettorale, il quesito referendario cui siamo chiamati a rispondere è il seguente: “Approvate il testo della Legge Costituzionale concernente ‘Modifiche degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari’ approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana – Serie generale – n. 240 del 12 ottobre 2019?”.

Tradotto: qualora vincesse il “sì” si procederebbe a una riduzione dei membri del Parlamento, che da 945 passerebbero a 600. Nello specifico, la Camera passerebbe da 630 a 400 deputati, mentre il Senato da 315 a 200 senatori. Cambierebbe, inoltre, il rapporto numerico di rappresentanza sia alla Camera (1 deputato per 151.210 abitanti, mentre attualmente è di 1 per 96.006 abitanti) sia al Senato (1 senatore per 302.420 abitanti, al contrario dell’attuale 1 ogni 188.424 abitanti). In caso di vittoria del “no”, invece, la composizione del Parlamento rimarrebbe invariata.

Il referendum

Si tratta di un referendum costituzionale confermativo. Il che significa che, a differenza di quello abrogativo, non necessita di quorum: l’esito sarà valido a prescindere dalla percentuale di affluenza degli elettori. Gli aventi diritto (cittadini italiani iscritti nelle liste elettorali e che hanno compiuto 18 anni) sono 51.559.898, di cui 4.616.344 all’estero. I maschi sono 25.021.636, le femmine 26.538.262.

Quando si vota?

Urne aperte domenica 20 settembre dalle 7 alle 23 e lunedì 21 settembre dalle 7 alle 15. Per votare è necessario presentarsi al seggio, indicato nella propria tessera elettorale, muniti di documento di riconoscimento in corso di validità e tessera elettorale.

Le ragioni del no

A riflettere sulle ragioni del “no” al prossimo referendum è Piergiorgio Grassi, già professore ordinario di Filosofia della religione all’Università di Urbino e autore di numerose pubblicazioni di carattere filosofico, sociologico e storico.

Professor Grassi, siamo di fronte a un tema molto complesso al quale dobbiamo dare, però, una risposta (apparentemente) semplice. Come motiva la sua decisione per il no di fronte al quesito referendario?

“È un no, il mio, che nasce da una riflessione e non da uno stato d’animo. Che la nostra Costituzione possa essere riformata nella seconda parte è previsto dalla stessa Carta e si presenta talvolta necessario. Il tempo non passa invano e a decenni di distanza dalla sua promulgazione certi elementi appaiono obsoleti. Il bicameralismo paritario, ad esempio, va superato. Si tratta però di vedere il come e soprattutto il perché.

Cominciamo dal rispondere a quest’ultima domanda: quando il Movimento 5 Stelle presentò la propria idea (si era all’inizio della legislatura ed era stato firmato il famoso contratto con la Lega) aggiunse alla proposta principale anche quelle del referendum propositivo e della eliminazione del vincolo di mandato, a significare il superamento dell’autonomia dei parlamentari: non più responsabili di fronte alla nazione, ma strettamente legati alle decisioni dei partiti. Non è un mistero per nessuno che, sin dall’inizio della loro apparizione sulla scena politica, i pentastellati abbiano in mente una riduzione della centralità del Parlamento. La democrazia rappresentativa è sempre stata oggetto di critica, a favore di un’idea di democrazia diretta che ha già mostrato ampiamente i suoi limiti e i suoi rischi”.

Lei sostiene che la proposta referendaria sia ispirata da questa logica antiparlamentare. In che senso, concretamente?

“Si sono dimostrati inconsistenti due argomenti a favore: l’argomento del risparmio dei costi della politica e quello della necessità dello sfoltimento di senatori e deputati poiché insieme costituirebbero il Parlamento più numeroso d’Europa e il più inefficace. Per quanto riguarda il primo argomento, l’Osservatorio dei conti pubblici ha quantificato il risparmio nello 0,007% ogni anno (il costo di un caffè) e, per quanto riguarda la cosiddetta pletora dei parlamentari, è stato dimostrato (dagli Uffici studi della Camera e del Senato) che ora il nostro Paese è al ventitreesimo posto su ventisette Stati della Unione Europea per numero di parlamentari.

Con la sforbiciata del referendum passeremmo all’ultimo posto. E tutto questo avverrebbe a discapito della rappresentanza dei cittadini. L’odierno rapporto tra abitanti e parlamentari è di un seggio di deputato ogni 96.000 abitanti e di un seggio di senatore ogni 192.000 abitanti. Con la riforma sarebbe eletto un deputato ogni 151.000 abitanti e un senatore ogni 300.000 abitanti. È chiaro che il diritto dei cittadini ad essere rappresentati non viene in tal modo incrementato e diventa più arduo far giungere la propria voce al Parlamento. Sono convinto che se prevarrà il sì, il lavoro parlamentare non procederà più spedito”.

Cosa può accadere dunque, a suo avviso, se vincerà il sì?

“Si accentuerà probabilmente la deriva, in atto da tempo, della centralità del Parlamento che, ripeto, è considerato un asse fondamentale dalla nostra Carta Costituzionale. Già in sede di trattativa tra PD e 5 Stelle erano stati previsti dei correttivi (almeno cinque) in grado di limitare i difetti della legge di riforma, correttivi che non sono mai stati approvati. Appare paradossale che si vari una legge la quale dovrebbe essere riformata in seguito.

E la riforma elettorale che doveva essere contestuale al varo della legge sul taglio dei parlamentari, non si sa se e quando sarà varata e nel caso che ciò avvenisse, si tratta di capire se sarà data la possibilità ai cittadini di scegliere davvero i propri rappresentanti. Il che richiederebbe l’impegno di reintrodurre il voto di preferenza oppure l’istituzione di collegi elettorali e non la presentazione di liste chiuse a discrezione dei partiti: una prassi che si è affermata da tempo”.

Le ragioni del sì

Rimini è attenta al tema del referendum. Lo dimostrano i diversi dibattiti pubblici che, in presenza o via Internet, si sono tenuti di recente sull’argomento. Tra i fautori del “sì” che si sono maggiormente espressi, c’è l’avvocato riminese Salvatore Di Grazia, intervenuto proprio pochi giorni fa in un dibattito tenuto dall’associazione Itaca Rimini.

Avvocato Di Grazia, perché votare “sì” al referendum?

“Il tema della riduzione dei membri del Parlamento è presente nella storia repubblicana da sempre. Nell’Assemblea Costituente si discusse, anche in modo abbastanza frettoloso, di quale numero andasse scelto per rappresentare i parlamentari: tra le varie proposte, alla fine prevalse il criterio di rapportare il numero dei rappresentanti a quello della popolazione. Il numero attuale, però, è dovuto ad una riforma del 1963 che, senza alcun clamore e accuse di attentato alla Costituzione come invece avviene oggi, bloccò il numero di parlamentari a 945, superando il criterio di proporzionalità rispetto alla popolazione. Siamo di fronte a un referendum molto importante, e ritengo che la riforma proposta non possa essere ridotta a un mero dibattito sui numeri”.

Secondo lei, dunque, su cosa si gioca la partita?

“La scelta a cui il referendum ci chiama non è epocale, come spesso viene definita, perché non è un qualcosa che stravolgerà la Costituzione. Si tratta, però, di una riforma simbolica, che può lanciare un preciso segnale: bisogna risparmiare, bisogna ridurre i costi della politica. Ma non solo. La riduzione del numero dei parlamentari serve a garantire la governabilità: viviamo in un’epoca di autostrade telematiche, di digitale, di globalizzazione. Un contesto che i costituenti non potevano neanche immaginare, e che per sua natura richiede decisioni rapide e tempestive da parte delle istituzioni. L’assetto e la struttura istituzionale del nostro Parlamento è inadeguata in questo contesto”.

Rimane però il tema della diminuzione di rappresentanza.

“La politica è fatta anche di scelte che ammettono dei sacrifici, finché a essere sacrificati non sono diritti fondamentali. Ora, nel contesto che ho appena descritto, il fatto che per ogni abitante ci siano meno parlamentari non lo vedo come un dramma, come un vulnus tale da ledere i diritti fondamentali della Carta Costituzionale. Inoltre, al giorno d’oggi la rappresentanza politica non è prerogativa del solo Parlamento, essendo la legislazione di competenza anche di enti locali e sovranazionali”.

C’è chi vede in questo una minaccia alla Costituzione. Cosa ne pensa?

“A mio parere il Parlamento era già anacronistico quando fu pensato la prima volta, proprio nella Costituzione. Perché se è vero è che i primi 33 articoli sono il risultato di una mirabile sintesi tra culture diverse, non altrettanto si può dire della seconda parte della Carta, quella che tratta dell’assetto istituzionale dello Stato e dei suoi organi. A ciò i padri costituenti, soprattutto per ragioni di tempo, non dedicarono l’approfondimento necessario, ragione per cui presero a modello il vecchio stato liberale fondato sul primato del Parlamento. Un modello che era già in crisi, e che non può che esserlo ancora di più nel contesto del mondo moderno”.