Home Sport “Siamo sicuri che lo sport voglia combattere il razzismo?”

“Siamo sicuri che lo sport voglia combattere il razzismo?”

E’ un virus subdolo. Soffocante. Ignorante. Devastante. Che quando ti colpisce ti svuota l’anima e ti trasforma in un deserto arido. Un virus contro il quale il mondo non è riuscito ancora a trovare il giusto antidoto. Si chiama razzismo e in questi ultimi giorni ha deciso di tornare prepotentemente alla ribalta. E lo ha fatto colpendo quello che dovrebbe essere un territorio franco: lo sport. Quel pallone calciato da Mario Balotelli verso la curva del Verona ha superato le mura del “Bentegodi” ed è rimbalzato nelle piazze di un’Italia che ancora una volta non è riuscita a condannare senza se e senza ma, quei buu animaleschi. Anzi, c’è chi addirittura si è scagliato contro Balotelli “perché è uno scemo e gli sta bene” e chi, come il sindaco leghista di Verona, città di San Zeno, il Vescovo Moro che veniva dalla Mauritania, ha detto che non è successo nulla. Come non è successo nulla durante Cagliari-Inter quando l’attaccante nerazzurro Lukaku è stato sommerso da altri ululati o in Atalanta-Fiorentina quando la stessa sorte è toccata a Dalbert. E come non parlare dei tanti casi che si consumano nei campetti giovanili. L’ultimo arriva dalla Lombardia. Un ragazzino di neppure 10 anni dell’Aurora Desio è stato apostrofato da una mamma avversaria con il solito negro di merda.
Ma attenzione perché il virus è capace anche di mutare. E allora dal nero passa al razzismo territoriale. Durante Roma-Napoli di un paio di settimane fa, ancora una volta si sono sentiti cori contro i tifosi partenopei, con la speranza che il Vesuvio possa eruttare nuovamente e “lavare la vostra sporcizia”. Figuratevi se poi giocate nel Napoli e siete di colore, vedi Koulibaly, bersaglio quotidianamente di portatori sani di questa imbecillità. Sia chiaro, non è solo il calcio a essere colpito dal virus. Anche altre discipline. Ma solo, e solamente, se in campo c’è un atleta che non ha la pelle bianca. Un caso clamoroso è quello di Carlton Myers, portabandiera italiano alle Olimpiadi di Sidney del 2000 e icona del basket tricolore. Carlton, quando giocava, ne ha sentite di tutti i colori. Nei palazzetti il leitmotive era “non esistono negri italiani”. Tutti sentivano, ma tutti facevano finta di nulla. Come nel 2013 quando, nel corso di una partita del campionato Uisp riminese, è stato bersagliato da insulti e da alcuni buu da parte degli avversari.
“Purtroppo sono episodi che continuano ad accadere – sottolinea proprio mister 87 punti – e questo ripetersi non fa altro che farmi arrabbiare. Adesso c’è il caso Balotelli, si sono riempite pagine e pagine e probabilmente ancora se ne riempiranno. Poi, passato un mesetto o forse meno, tutto dimenticato. Se lo sport italiano vuole davvero sconfiggere questa piaga, occorre prendere provvedimenti drastici”.
Altra disciplina, altri epiteti irripetibili. Sono quelli che ha dovuto subire Fiona May. Due volte oro mondiale e due volte argento olimpico nel salto in lungo, è stata per anni una delle pochissime atlete italiane di colore e se ha gareggiato in un’era pre-social, le offese, gli insulti, i pregiudizi non le sono stati negati. Ma lei ha sempre reagito al virus. Non si è fatta infettare. Proprio per questo, nel 2014, la FIGC pensò a lei come responsabile della Commissione per l’integrazione. Un’esperienza che, però, è durata poco. “Combattere il razzismo non era la loro priorità. Quella in FIGC è stata un’esperienza deludente” ha dichiarato recentemente a «Vanityfair». Come lei sono in tanti a pensare che per il mondo del calcio il razzismo, la xenofobia, la discriminazione etnica non sono mali, ma fanno parte di una minoranza di tifosi. “Qualcosa si può fare – dice – a cominciare dagli arbitri perché hanno il potere di portare le squadre fuori dal campo. Devono essere più sensibili e prendere il controllo della situazione. I club che non sono in grado di intervenire sui loro tifosi dovrebbero perdere a tavolino. Dovrebbero essere esclusi dalle Coppe. Forse perché sono figlia degli anni ’80 ma ricordo che Maggie Thatcher fu dura con gli hooligans e funzionò. L’Italia ne avrebbe bisogno”.
Il problema è, c’è la volontà?