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Pasqua d’altri tempi

IL RICORDO. Grazie all’archivio digitale de ilPonte, presto disponibile agli abbonati, ripercorriamo le tradizioni dei giorni pasquali nella prima metà del Novecento, attraverso il racconto di chi le ha vissute in prima persona

In un mondo che viaggia sempre più veloce nel solco della globalizzazione (che sotto tanti punti di vista si traduce in omologazione), mantenere vive le antiche tradizioni locali diventa sempre più prezioso.

Soprattutto in un territorio ricco di usanze e ricorrenze come quello romagnolo e, in particolare, riminese.

Tradizioni specialmente presenti nel periodo di Pasqua, che oggi possiamo riscoprire grazie a chi le ha vissute in prima persona. Come?

Attraverso memorie personali messe nero su bianco agli esordi de ilPonte, in uno dei primi articoli dedicati alla storia locale pubblicati nel lontano 10 aprile 1977. Un articolo, dal titolo Pasqua d’altri tempi, che consente di ripercorrere i giorni delle feste pasquali nella Rimini della prima metà del secolo scorso, prima che i bombardamenti del ’43 cambiassero la vita e la storia della città. Un ricordo prezioso, che possiamo riproporre in forma integrale grazie all’archivio digitale de ilPonte, presto disponibile anche agli abbonati.

Le campane – le campane” e, come in un film di Ridolini, la scena si animava in modo insolito. Correvano tutti verso le quattro fontane della pescheria per lavarsi gli occhi giacché Cristo, allora, risorgeva il Sabato Santo alle 11. Correvamo tutti in quella direzione: le donne, con la sporta della spesa fatte di piccoli dischetti di pelle nera e cuciti tra loro a squama di pesce (donne della città o dei borghi, perché le contadine avevano le loro bisacce colorate, le stesse che, dopo alcuni anni, avrebbero sfoggiato le signore più raffinate), gli uomini (anche gli anarchici mangiapreti: una abitudine? Una necessità?), le pescivendole e le poveracciaie con i loro grembiuli bianchi e le mantelle a ruota, sferuzzate con gli avanzi di lana dai 100 colori, i bottegai e noi bambini: a sciami. Le botteghe erano addobbate per la festa.

Nelle macellerie, tra gli agnelli spellati e appesi, come in un quadro di Carlo Levi, i rami di alloro, con le foglie sporche di sangue, emanavano il profumo di un rito. La Itala aveva esposto nella vetrina le uova di Pasqua, grandi, con i nastri colorati. Assurde uova di Pasqua perché non si sapeva mai chi le avrebbe comperate. « Sono finte… di legno » diceva qualcuno di noi. « No no » altri replicavamo « sono vere, di cioccolata e dentro c’è la sorpresa: una catena tutta d’oro ». « Povero patacca… oro cagacivetta. Oro del Giappone che in Italia si chiama ottone ». Pirighel e la Tosca avevano nella madia le prime porchette, con accanto le torte di sangue fumanti come il cratere di un vulcano.

Già da un pezzo, sulla porta della cantina di Munfagnin, la Delina vendeva le semenze (molto dopo si sarebbero chiamate brustoline) e i lupini. La Delina delle castagne perché d’inverno, nello stesso posto, teneva nel suo banco di vendita le caldarroste e i lumachini lessati. La Mela, la Pina e la Teresìna erano le immancabili venditrici di vongole (le povere poveracce per cui poveraccio era chi le pescava, chi le vendeva, chi le mangiava, prima del loro improvviso lancio turistico), di telline, di garagoli che per essere mangiati, secondo la risposta della Mela alla domanda di una signora, « si rompe il culo e poi si suzza ».

Le pescivendole si dividevano in due gruppi. Quelle che avevano il posto fisso, al coperto, sotto la tettoia, ed erano le commercianti ossia coloro che comperavano nei mercati all’ingrosso per rivendere al minuto, e le marinaie che saltuariamente arrivavano da Bellaria, da Viserba, da Riccione, con le loro cassette sulle biciclette per vendere il pesce che i loro mariti avevano pescato durante la notte. Le marinaie dovevano rimanere fuori dalla tettoia, ma il maggior disagio era ricompensato dalle migliori posizioni ed erano anche quelle che illustravano più a voce alta i pregi della propria merce.

Tra le due categorie esisteva una manifesta incompatibilità dettata un po’ dalla differenza di classe, maggiormente dalla concorrenza. Difatti allo snobbismo delle prime, le altre rispondevano offrendo alla clientela pesce più fresco e prezzi più convenienti.

C’era sempre un motivo, un pretesto perché quelle di dentro potessero litigare con quelle di fuori; allora vita e miracoli, quelli compiuti e quelli immaginati, di ognuna divenivano di dominio pubblico”.

I giorni di festa

“Il sabato di Pasqua ogni colore assumeva toni più vivaci perché la festa era nell’aria con tutte le piacevolezze che per noi bambini significavano vacanze scolastiche, giochi continui dalla mattina alla sera e il susseguirsi, in quei giorni, di vecchie tradizioni come la colazione della mattina della Pasqua consistente in salame, ciambella (che le donne cucinavano nel forno della Iole Silvegni, bisticciando sovente con il pettegolo pappagallo Loreto), uovo sodo benedetto e vermout.

Il lunedì dell’Angelo era il giorno del Somarlungo.

Boccastorta e Gagnola, per quattro soldi a testa, ci portavano con le loro carrozze alla festa delle Grazie e il nostro divertimento era tale che ci rimaneva un motivo di conversazione per vari giorni dopo. Eravamo bambini fortunati. Riuscivamo ad avere tutto perché ci mancava tutto.

I giocattoli li conoscevamo solo per vederli nella vetrina di Scacci, ma i giochi no: i giochi non scarseggiavano ed erano divertenti perché li sapevamo inventare.

I confini che delimitavano l’area in cui agiva la nostra «Banda» erano segnati dal vicolo del «birello» quello che dalla piazzetta delle Poveracce porta in corso d’Augusto e dove esisteva un vespasiano, da via Cairoli, dal giardino della Delina della trattoria Popolare, dal marciapiede vicino alla fontana di Piazza Cavour.

Talvolta ci avventuravamo fino sul corso (Piazza Malatesta perché per indicare corso d’Augusto si diceva ‘per il corso’) e imboccavamo immediatamente sopra la fontanina di fianco ‘le prigioni’ la grotta dei frati bianchi che percorrevamo per tutta la sua lunghezza tra urla, spinte e spauracchi fino alla botola vicino alla fontana delle 13 cannelle.

L’ultimo sabato di Pasqua fu quello del ‘43. L’ultimo del nostro ‘piccolo mondo antico’, perché il 1° novembre dello stesso anno il rombo dei motori dei bombardieri inglesi e gli scoppi che iniziarono a cambiare il volto alla città segnarono l’inizio di un mondo moderno: più grande”.