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Non chiamatele ‘baby gang’

VIOLENZA GIOVANILE. A Rimini (Sala Manzoni) un convegno per riflettere su un tema sensibile, ben conosciuto sul territorio. Le responsabilità del mondo degli adulti

Non chiamatele baby gang. Lo ha detto chiaro il prefetto Francesco Messina, direttore centrale della sezione anticrimine della Polizia di Stato, intervenendo al convegno Giovani, disagio, microcriminalità. Il punto sulle cosiddette baby gang. Promossa dal Gruppo giovani musulmani di Rimini, l’iniziativa è stata totalmente sposata dal Comune e ha visto in dialogo, tra gli altri, anche la presidente del Tribunale per i minorenni dell’Emilia-Romagna Gabriella Tomai, il presidente dell’Associazione italiana prevenzione cyberbullismo e sexting Andrea Bilotto, Hassan Defilippis del Coordinamento nazionale nuove generazioni, il neuropsichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza della Ausl Romagna Andrea Tullini. Quel “cosiddette” nel titolo è un aggettivo, ma non è di troppo. Serve per sottolineare un fattore fondamentale di un fenomeno, presente anche in precedenza, ma che si è inasprito tra i giovani dopo le restrizioni dovute alla pandemia.

Tre università, un’indagine

È stato pubblicato nell’ottobre del 2022 lo studio “Le Gang Giovanili in Italia”, realizzato da Transcrime, Centro di ricerca interuniversitario sulla criminalità transnazionale dell’Università cattolica del Sacro Cuore, dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna e dell’Università degli Studi di Perugia. I risultati confermano che le gang giovanili sono presenti nella maggior parte delle regioni italiane e in aumento nell’ultimo triennio, con una leggera prevalenza del centro nord rispetto al sud. Sono composte principalmente da ragazzi di età tra i 15 e i 17 anni, nella maggior parte dei casi sono italiani.

Meno frequenti i gruppi formati in maggioranza da stranieri. I crimini: risse, percosse e lesioni, atti di bullismo, atti vandalici.

Fattori di rischio: rapporti problematici in famiglia o a scuola, difficoltà relazionali, disagio sociale o economico. Usano i social network per rafforzare le identità di gruppo e generare processi di emulazione o auto-assolvimento.

L’analisi

Al prefetto Messina è toccato inquadrare il fenomeno. “ Non esiste in Italia un’emergenza. Non siamo di fronte al fenomeno delle pandillas”, le bande di giovani di origini sudamericane che Messina ha affrontato in passato (diffuse in Italia a partire dai primi anni 2000).

Bande in rapporto con la criminalità organizzata dei Paesi di origine, per debellarle fu necessario il sostegno dell’FBI. Quel fenomeno è stato quasi completamente eradicato e le baby gang attuali non sono assimilabili”.

La violenza che si genera dal disagio giovanile oggi non è solo straniera, o di seconda generazione, ma è anche made in Italy. “ Si muovono per motivi occasionali” e l’età “

sembra sempre più bassa”. Il prefetto cita il caso più recente, quello di un dodicenne che ha accoltellato un coetaneo, a Napoli, non molti giorni fa. “ Un ragazzo di buona famiglia, borghese”, ci tiene a far notare il prefetto. Più in generale, “ non c’è un’aggregazione criminale con struttura piramidale, non è una guerra tra bande che dobbiamo affrontare. C’è, invece, il fattore dell’aggregazione giovanile che scaturisce in violenza in situazioni di ‘mala movida’”. Secondo il prefetto la pandemia “ ha aggravato una situazione già claudicante”. Sul banco degli imputati scuola e famiglia, che chiama “agenzie sociali primarie”.

Se un bimbo esce di casa con un coltello, in un contesto familiare ‘normale’, c’è un problema. Il primo dato è il fallimento dell’agenzia sociale famiglia”. La seconda agenzia sociale è la scuola. Che non se la passerebbe meglio. “ I giovani non riconoscono più nei loro insegnanti figure di riferimento. La scuola non è stata più in grado di accompagnare.

E così il disagio di chi vive nelle periferie è diventato il disagio di tutti”.

Le scuole “ dovrebbero prendersi le proprie responsabilità”, i dirigenti scolastici “ dovrebbero segnalare i casi e non rinunciare per paura che la scuola perda iscritti”. Una sfida che si combatte tutti insieme. “ Famiglia, scuola, parrocchia: è un’epoca in cui

bisogna agire in contemporanea, lavorare a favore di questi ragazzi”.

Il tribunale, un’agenzia educativa

È meglio che i ragazzi incrocino la giustizia minorile finché sono minorenni perché questo permetterà loro di iniziare un percorso significativo di educazione, o rieducazione”. Non è “Mare fuori”, è Gabriella Tomai, presidente del Tribunale dei minorenni dell’Emilia-Romagna. Per questo la parola ‘repressione’ accostata alla giustizia minorile è poco appropriata. Il nostro compito è dare fiducia al ragazzo. Dirgli: lo Stato crede in te, tu puoi dimostrare di essere ciò che vuoi veramente essere, la persona migliore che puoi essere. E noi siamo con te”.

La fascia 14-18 anni “ è tale per cui sia la polizia sia il tribunale hanno strumenti per agire. C’è qualcosa però che non funziona, se ci troviamo di fronte a fatti commessi da ragazzini di 12 anni”, ammette Tomai. Sono tre le parole chiave attraverso cui passa in tribunale il recupero di un minore: “messa alla prova”, “giustizia riparativa”, “mediazione”.

La mediazione, l’invitare l’autore del reato e la persona offesa a sedersi ad un tavolo, “ per i ragazzi quando riesce è un’esperienza catartica. Guardare negli occhi la persona che ho offeso, può riattivare l’analfabetismo empatico. A me è capitata la storia di un ragazzo che mi ha chiesto di chiedere scusa alla vittima. Lo ha fatto. All’udienza successiva è venuto insieme alla signora che aveva offeso perché lei ci teneva a dire ai giudici che lui le aveva chiesto scusa, si era pentito e lei lo aveva perdonato.

Questa è la giustizia, non sono cose strane, sono cose possibili”. La riparazione “ non è risarcimento, è la presa di coscienza da parte del ragazzo del suo comportamento antisociale. Da qui può nascere il suo desiderio si essere un cittadino felice, costruttore. Il disagio non viene fuori all’improvviso, da un momento all’altro. Quando i giovani di una terra non vivono bene e lanciano questo grido vuol dire che la comunità non funziona. Nella società multietnica, forse un aiuto può essere che ognuno vada alla radice comune di una base religiosa”.